Controstorie

Costretti all'esilio e perseguitati perché cristiani

Braccati dai comunisti di Hanoi e dai nazionalisti di Saigon. Illusi e poi abbandonati dagli americani Sono rimasti soltanto in 800mila

Costretti all'esilio e perseguitati  perché cristiani

Fabio Polese

da Bangkok

Siamo nel distretto di Bang Yai, nella provincia di Nonthaburi, a nord della capitale della Thailandia. In questo angolo sperduto si è rifugiato parte di un popolo ancestrale in fuga, che ha lottato fino all'ultimo per difendere le proprie specificità dalle continue minacce, violenze, vessazioni del regime comunista di Hanoi.

Si chiamano Montagnard, «Figli della Montagna». Ma i vietnamiti preferiscono chiamarli con il termine dispregiativo di Moi, ovvero «selvaggi». Gran parte di fede cristiana sono uno dei popoli più antichi del sud-est asiatico e risiedono nella penisola dell'Indocina da oltre duemila anni. Per molto tempo hanno vissuto in pace, coltivando e allevando bestiame, dividendo le risorse all'interno della comunità, rispettosi delle libertà individuali e delle proprie tradizioni. Le loro terre, situate nelle alture del Vietnam centrale, venivano considerate pericolose perché infestate dagli spiriti e, per questo, quasi nessuno tentava di avvicinarsi.

La stagione delle piogge sta per finire e il caldo mattutino soffoca il respiro. Ad spettarmi in una piccola stradina in mezzo al nulla c'è solo Nhiang Sen. Ha appena trent'anni, ma il suo viso è scavato dalle ingiustizie subite. «Sono arrivato qua nel 2010», racconta mentre ci infiliamo in una via stretta che taglia la piantagione e porta diretti nel villaggio dove hanno trovato rifugio circa trecento Montagnard. «Non avrei mai voluto lasciare la mia terra, sono stato obbligato. Il governo vietnamita ci perseguita da decenni, le nostre case vengono confiscate, le chiese date alle fiamme e noi siamo continuamente arrestati e torturati». Anche lui ha passato tre anni della sua vita in carcere. «È stato orribile», dice senza aggiungere ulteriori dettagli. I particolari, però, me li dà il suo corpo. La pelle è ruvida, invecchiata come se avesse almeno venti anni in più. Gli occhi cupi come se non riuscisse a vedere i colori della vita.

I problemi dei Montagnard cominciano nel 1954, alla fine della guerra indocinese tra i colonizzatori francesi e i guerriglieri indipendentisti Viet Minh. I «Figli della Montagna», maltrattati sia dai comunisti di Hanoi sia dai nazionalisti di Saigon, non vogliono stare né sotto il Vietnam del nord e neppure sotto a quello del sud. Chiedono l'autonomia e la salvaguardia del loro territorio. Per questo fondano il movimento pacifico Bajaraka, diventato poi un vero e proprio gruppo armato sotto il nome di Fulro, il Fronte unito per la liberazione dei popoli oppressi, che nel 1992 ha definitivamente cessato le attività rivoluzionarie. Ma la vera tragedia inizia nel 1975, con l'unificazione del Paese. Da quel giorno i Montagnard iniziano a essere massacrati, sfruttati e privati di ogni diritto. Una storia molto simile a quella degli indiani in America o degli aborigeni in Australia. Basti pensare che durante l'occupazione francese, iniziata nel diciannovesimo secolo, erano un popolo di 3 milioni e mezzo di persone. Oggi i superstiti non superano gli 800mila.

Occorre, però, fare un passo indietro. Quando gli Stati Uniti intervengono in Vietnam, i «Figli della Montagna» si schierano dalla loro parte. Vestono le divise degli americani e imbracciano il fucile d'assalto M-16 contro quelli che per loro sono un nemico comune: i Vietcong. L'illusione è quella di una futura autonomia politica, sociale e culturale. «Sognavamo un futuro fatto di pace per la nostra gente», spiega Y Phi Kpnih, 69 anni, che ha servito l'esercito statunitense. «Ci avevano promesso tante cose che poi sono svanite nel nulla. L'unica cosa che mi ha lasciato la guerra combattuta per gli stranieri sono queste due cicatrici», dice mentre mi mostra i segni di un proiettile che gli è penetrato nella spalla e di uno che lo ha colpito appena sopra la caviglia.

Con la fine della guerra, la grande fuga degli americani e il trionfo di Ho Chi Minh, le speranze di libertà per i Montagnard svaniscono. Il presente si trasforma in un vero e proprio incubo. Il regime comunista li considera traditori perché hanno sostenuto il nemico sconfitto, con l'aggravante di professare la fede cristiana. Per questo inizia la repressione. Da subito il governo nazionalizza le loro terre, non riconoscendogli nessun diritto sui territori dove abitano da millenni e centinaia di villaggi vengono distrutti.

Ro O Y Brik, classe 1944, non smette di piangere mentre mi mostra le foto dei suoi appezzamenti sequestrati dalla polizia vietnamita ormai più di un decennio fa. Anche lui ha combattuto insieme alle truppe a stelle e strisce e per questo è stato arrestato per sette anni. «In cella venivo continuamente torturato, mi dicevano che dovevo essere rieducato». Quando gli altri «Figli della Montagna» sanno della mia presenza, arrivano anche loro con le prove dei loro anni passati in carcere. I racconti sono tutti uguali: botte, minacce e torture.

Rian H Biep, 29 anni, scoppia a piangere quando, insieme a suo marito Y Su Ksor, di appena un anno più grande, mostra sul cellulare la foto dei loro tre figli che sono rimasti in Vietnam. «Non sappiamo come fare, non siamo riusciti a portarli con noi», mi dice. «Siamo dovuti scappare nel mezzo della notte perché le forze di sicurezza sono venute a prenderci». La polizia li ha accusati di aver cercato di convertire al cristianesimo altre persone. Proselitismo si dice, nel linguaggio tecnico. Una colpa grave: sarebbe costata loro diversi anni di carcere e soprusi. Quei soprusi che i «Figli della Montagna» sono stanchi di subire. Per questo hanno deciso dolorosamente di abbandonare la loro casa natale. Ma nella mente di tutti c'è il sogno di tornare a vivere nei territori dei propri antenati.

Radicati nella natura affilata ma sempre rassicurante delle vette perdute.

Commenti