Scena del crimine

Noemi Durini fu picchiata e sepolta viva. La madre: “Nessuno mi ha aiutata

Il 3 settembre 2017 scomparve Noemi Durini: era stata picchiata, accoltellata e sepolta viva dal fidanzato Lucio Marzo. La madre dice: "Un femminicidio annunciato"

Noemi Durini fu picchiata e sepolta viva. La madre: “Nessuno mi ha aiutata”
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Una terra mobilitata per la sparizione di un’adolescente. Poi la confessione del colpevole di omicidio. Infine la scoperta choc sulle modalità dell’assassinio. Quello di Noemi Durini fu un femminicidio che ancora oggi scuote le coscienze sia per la giovane età della vittima sia per le cause della morte individuate in sede autoptica. “Quello di Noemi fu un femminicidio annunciato. Avevo chiesto aiuto più volte, quando ho avvertito pericolo, ma nessuno mi ha aiutato”, precisa Imma Rizzo, mamma della giovane, a IlGiornale.it.

Non solo: a soli 6 anni dall’omicidio, colui che è stato riconosciuto come il colpevole dalla giustizia italiana, Lucio Marzo, fuori dal carcere minorile per un permesso di lavoro, è stato fermato, dopo un inseguimento, dalle forze dell’ordine, ed era - ubriaco - a bordo di un mezzo che non avrebbe potuto guidare.

La scomparsa

Il 3 settembre 2017 una 16enne, Noemi Durini, studentessa in servizi sociali, scomparve da Specchia in provincia di Lecce: dopo la denuncia di scomparsa presentata dai genitori, partì come di consueto il tam tam sui social. Il volto di Durini, il numero dei genitori e del 112 campeggiarono per giorni nelle feed di Facebook dell’intero Salento e non solo. Un territorio, ancora sconvolto per la scomparsa, sebbene in circostanze molto differenti, avvenuta 7 anni prima di una coetanea - Sarah Scazzi - poi rivelatasi un omicidio, ha sperato fino alla fine in un lieto fine, in un ritorno a casa che non c’è mai stato.

Noemi - racconta Rizzo - era una figlia straordinaria, un animo nobile, prezioso. Le dicevo sempre: tu non sei come le altre ragazzine. Era buona, tanto umana, sempre aperta al prossimo nonostante la giovane età. A scuola si relazionava con tutti: l’ultimo anno si era molto affezionata a un coetaneo con autismo, avevano creato una bella amicizia. Lei gli dava affetto, lo aiutava tutti i giorni a scuola”.

La confessione e il ritrovamento del corpo

Il ritrovamento del corpo di Noemi Durini

Mano a mano che i giorni passavano, i media hanno sottolineato come Durini avesse una relazione che i genitori non gradivano: l’allora 17enne Lucio Marzo sarebbe stato dipinto successivamente dai coetanei del luogo sulla stampa come possessivo. E la madre di Durini si era rivolta alle forze dell’ordine, denunciando in occasioni ben precise, senza però neppure un ordine restrittivo.

“Ci fu un episodio in particolare, a maggio 2017 - dice la donna - Mi chiamarono i carabinieri, chiedendomi di recarmi a Montesardo, località in cui lui abitava. Vidi Noemi con i capelli arruffati e pieni di lividi: i carabinieri mi dissero che Lucio l’aveva picchiata. Ho portato l’indomani Noemi in ospedale, perché avvertiva forti dolori alla testa, e con il certificato medico ho sporto denuncia, allegando anche le foto del corpo e del viso. Chiesi ai carabinieri di tenerlo lontano da mia figlia, ma mi risposero che attendevano la decisione di un giudice. Ma la risposta non è mai arrivata". E ancora: "Noemi mi diceva sempre che Lucio la minacciava, affermando che si sarebbe tolto la vita se lei l’avesse lasciato. Chiesi conto ai carabinieri anche del contesto famigliare, ma mi fu risposto che quella di Lucio era la classica famiglia perbene, la famiglia del Mulino Bianco. Tanto Mulino Bianco che la famiglia è stata condannata in primo grado per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa, per aver offeso l’onore e l’onorabilità di Noemi su tantissimi programmi televisivi nazionali". Sempre la donna spiega:" Ho fatto richieste non solo ai carabinieri, ma anche ai servizi sociali, ma sono stata lasciata da sola. Diciamo sempre: denunciate. Ma chi di dovere deve ascoltare le denunce e intervenire subito. Con il Codice Rosso fortunatamente qualcosa è cambiato”.

Il 13 settembre 2017 Marzo confessò di aver ucciso Durini la notte stessa della scomparsa in una campagna di San Giuseppe di Castrignano del Capo. Lui disse di averla uccisa colpendola con una pietra, ma quello che l’autopsia stabilì fu agghiacciante: Noemi Durini era stata picchiata a mani nude, accoltellata alla nuca e quindi sepolta viva con le stesse pietre dei muretti a secco che i turisti nel Salento tanto ammirano. Durini era morta per asfissia, mentre a Marzo non restò che puntare, come confidò a un amico, sull’infermità mentale: dopo la confessione lasciò la caserma sbeffeggiando una folla inferocita pronta a linciarlo e da cui venne protetto dai militari in servizio.

Lucio Marzo dopo la confessione

Marzo fu quindi rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario, mentre il padre Biagio Marzo, inizialmente indagato per il solo occultamento del corpo, fu poi scagionato. Fu un momento choc quando si seppe che l’uomo sarebbe stato informato dell’omicidio dal figlio il giorno prima della confessione. Tuttavia Biagio Marzo con la moglie si abbandonò a scene colorite di fronte alle telecamere, affermando più volte di non saperne nulla quando venne informato in diretta da una giornalista della confessione e del rinvenimento del cadavere.

Lucio Marzo disse agli inquirenti di essere stato soggiogato, perché innamorato di Noemi Durini, accusandola di aver progettato di uccidere i genitori di lui, dato che si opponevano alla loro relazione. Ai genitori Lucio marzo lasciò un biglietto con scritto: "Quello che ho fatto è stato per l’amore che provo per voi. Noemi voleva che io vi uccidessi per potere avermi con sé. Sono un fallito e mi faccio schifo. Vi voglio bene papà e mamma”. Tuttavia Lucio Marzo ritrattò successivamente la confessione, addossando la colpa del delitto a un meccanico di Patù, che alla fine venne scagionato.

Il processo

I legali di Lucio Marzo chiesero per il loro assistito il rito abbreviato: il giovane venne giudicato per due volte dal Tribunale dei Minorenni di Lecce - in primo grado il 4 ottobre 2018 e in secondo grado il 7 giugno 2019 - anche nel momento in cui diventò maggiorenne. Fu condannato a 18 anni e 8 mesi di carcere per omicidio con le aggravanti della premeditazione, dei futili motivi e della crudeltà. Rinunciò alla Cassazione. Fu inoltre giudicato capace di intendere e di volere: “Egli ha compreso il disvalore e l’abnormità del gesto commesso, proprio per questo ha avuto la rapida e perseverante premura di allontanare da sé ogni sospetto e, dopo la confessione, di aver più volte disorientato gli interlocutori verso alterne versioni dei fatti, che per quanto goffe, sono state organizzate secondo rappresentazioni per lui giuridicamente più favorevoli”, si legge tra le motivazioni della sentenza.

Fu rigettata anche la messa in prova per Marzo, con queste motivazioni: “Il brutale omicidio di Noemi, commesso con lucida premeditazione, costituisce manifestazione estrema di una personalità orientata all’uso della violenza e alla prevaricazione, quale usuale metodo di soluzione delle tensioni e dei conflitti. L’osservazione della sua personalità non lascia intravedere in alcun modo segnali sui quali fondare un giudizio favorevole sulla possibilità di un suo recupero". Tra gli episodi significativi, i giudici segnalano gli atteggiamenti tenuti in carcere "come la colluttazione con un altro detenuto che il ragazzo aveva tentato di colpire con un manubrio di ferro sottratto dalla sala pesi (episodio avvenuto nel settembre 2018) con il chiaro intento di punirlo per aver avuto comportamenti poco corretti nei suoi confronti”.

I punti oscuri

Imma Rizzo il giorno del funerale della figlia

Non mancano in questa vicenda alcuni punti oscuri, uno su tutti: qualcuno aiutò Lucio Marzo la notte del femminicidio? Perché le modalità dell’omicidio confessate sono diverse da quanto riscontrato in autopsia? Perché a un certo punto la confessione è stata ritrattata?

All’indomani della guida in stato di ebrezza di Marzo, fuori dal carcere minorile di Quartucciu in provincia di Cagliari, la legale della famiglia Durini Valentina Presicce ha diffuso una nota in cui cita parte delle motivazioni della sentenza e spiega successivamente: “In ragione dell'estrema gravità dei fatti commessi si è venuta a creare una frattura con la società il cui superamento richiede un lungo tempo di detenzione non sicuramente compatibile con il decorso di neanche 6 anni di detenzione. Oggi pretendiamo che qualcuno ci dica chi ha valutato la pericolosità sociale di Lucio Marzo, pretendiamo che qualcuno ci dica a chi era intestata l'autovettura che Lucio Marzo guidava ubriaco. Per tale motivo abbiamo trasmesso al Ministro della Giustizia una richiesta di accertamenti urgenti sui fatti gravissimi accaduti in Sardegna per capire come mai un assassino ancora pericoloso per la società era ubriaco alla guida di una autovettura e se ci sono responsabilità da imputare a terzi”.

In un’altra nota Presicce scrive: "Prima di concedere i permessi premio si dovrebbe verificare la pericolosità sociale del condannato. Oggi pretendiamo che qualcuno ci dica chi ha appurato questa condizione. Pretendiamo che qualcuno ci dica, dopo quanto accaduto, chi ha valutato la pericolosità sociale di Lucio Marzo. A oggi, un solo fatto è pacifico: un assassino, in permesso premio, senza patente, era ubriaco al volante. E se avesse investito un pedone, se avesse provocato un incidente? Se avesse commesso un omicidio stradale? Chi si sarebbe preso la responsabilità dell'accaduto? Lo Stato italiano? Un assassino, ancora socialmente pericoloso, libero e ubriaco alla guida per le strade della Sardegna, con il rischio di fare del male ad altre persone, ad altre ragazze. Questa è una vergogna per Noemi, per i familiari e per tutte le donne vittime di violenza che ancora oggi gridano giustizia”.

Oggi Imma Rizzo è una delle persone in prima linea alla lotta contro la violenza sulle donne e i femminicidi. “Secondo me, il primo passo da compiere di fronte a questo tipo di crimini, da parte dello Stato, è garantire la certezza della pena - chiosa - Stiamo scrivendo alle alte cariche dello Stato, vogliamo incontrare i nostri rappresentanti per dire basta con tutta questa violenza, le vittime di femminicidio chiedono giustizia. Stavolta mi devono ascoltare: non è possibile che dopo 6 anni da un omicidio si ottenga un permesso premio. Io non ho paura di nessuno, ma mi chiedo: chi ci tutela dall’ottenere una giustizia giusta, certa? I detenuti - e non tutti possono essere riabilitati - vivono a spese di noi contribuenti. Ma le famiglie potrebbero aver bisogno di un aiuto, per esempio l’affiancamento di uno psicologo. Ci resta tanta violenza, perché abbiamo subito il trauma di una figlia massacrata e sepolta viva. Che messaggio diamo alle giovani generazioni? Che si possa decidere della vita degli altri e ci si possa rifare una vita, magari sbeffeggiando lo Stato? È questo il messaggio che Lucio Marzo ha dato”.

E, a suo avviso, si può fare qualcosa anche dal punto di vista culturale, a partire dalle parole che si utilizzano nella narrazione giornalistica. “Ci sono delle parole che fanno male quando si legge o si ascolta di femminicidi e omicidi in genere - conclude - Per esempio il ‘fidanzatino’ nel caso del killer, oppure il fatto che su di noi sia stato scritto che c’era una ‘faida famigliare’. E ancora ‘però era un bravo ragazzino’. Quando si usano parole di questo tipo si fa un danno inimmaginabile. Perché, nel momento in cui si aggiunge un ‘però’, si sta giustificando un atto di violenza. Mi auguro che ci si concentri di più su chi era la vittima, senza ‘però’. Nessun gesto di questo tipo è giustificabile. Se togli la vita a una persona, tu sei un assassino. Diamo una definizione al carnefice. E questo vale anche per gli abusi sessuali: se stupri sei uno stupratore. Sei un violento.

Sono parole presenti nel vocabolario”.

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