Scena del crimine

La rapina coi soldi di Topolino, poi l'omicidio. Il caso degli "uomini d'oro"

Nel 1996 due dipendenti delle Poste di Torino misero a segno una rapina con l'aiuto di due amici. Ma il furto si trasformò in omicidio e innescò una caccia all'uomo, che si concluse solamente due anni dopo, quando Domenico Cante e Ivan Cella furono condannati per l'omicidio dei complici Giuliano Guerzoni ed Enrico Ughini

La rapina coi soldi di Topolino, poi l'omicidio. Il caso degli "uomini d'oro"

Tre insospettabili truffatori, un colpo da miliardi di lire e una fuga in Costa Rica con passaporti falsi. Quello del 1996 alle Poste di Torino sarebbe stato un colpo perfetto, come quelli che si vedono nei film o si leggono nei libri, se gli "uomini d’oro" si fossero limitati alla rapina. Invece il furto si trasformò in omicidio e poi in fuga e latitanza. Un caso che rimane risolto solamente in parte: il bottino infatti non venne mai ritrovato.

Il colpo alle Poste

La storia degli "uomini d’oro" iniziò nella Torino della seconda metà degli anni ’90. Era la mattina del 27 giungo del 1996. Alle Poste centrali di Torino cominciarono ad arrivare i primi impiegati. Erano circa le 8 quando vennero controllati i sacchi del giorno prima, che avrebbero dovuto contenere i soldi provenienti dalle altre sedi. Al loro interno invece la sorpresa: "Contenevano vecchi giornali, libri scolastici e albi di Topolino - scrisse La Stampa del 30 giugno 1996 raccontando il furto - tanta carta, tagliata nella stessa misura delle banconote da 50 e 100 mila lire". Ma le sorprese non erano finite. Quando la polizia si precipitò alle Poste infatti, scoprì in mezzo alle cartacce un altro foglio. Era "un pezzo della busta paga di Giuliano Guerzoni", 36 anni, autista delle Poste torinesi e addetto al trasporto valori.

La sera prima, mercoledì 26 giugno, Guerzoni aveva guidato il furgone passato a ritirare i sacchi con i valori nelle dieci sedi delle poste cittadine aperte al pomeriggio. Insieme a lui, con il ruolo di "scambista", cioè colui che scende dal furgone e va fisicamente a prendere il sacco, c’era Domenico Cante, 39 anni. I due colleghi avevano iniziato il loro giro serale partendo dal deposito di corso Tazzoli intorno alle 18.40. Poi erano arrivati alla cassa di via Nizza e, scortati dalla polizia per tutto il percorso, passarono dalle diverse sedi cittadine, fino a ritornare in via Nizza. Erano le 20.20.

Lì, lo "scambista" aveva consegnato i soldi, sempre affiancato dalla scorta della polizia. Al momento del deposito, erano spuntati dal nulla due sacchi in più: dovevano essere dieci, ma erano dodici. Cante disse di aver smarrito le bolle di accompagnamento. A fine servizio, la scorta aveva lasciato soli Guerzoni e Cante, che avevano riportato il furgone all’autorimessa. La mattina dopo, Cante si presentò al lavoro come ogni giorno. Di Guerzoni, invece, nessuna traccia.

Gli "uomini d'oro"

Un furto miliardario avvenuto sotto gli occhi della polizia. Gli inquirenti capirono subito che i soldi erano spariti durante il giro di raccolta e che Guerzoni era coinvolto nel furto, data la presenza della sua busta paga e la sua scomparsa. Guerzoni, spiegò successivamente il sostituto procuratore Antonio Malagnino a Misteri in Blu, "era un personaggio che amava certamente la vita bella, al quale il lavoro che svolgeva stava stretto, sognava di avere molto denaro e gli piacevano le belle donne, tanto è vero che già in passato aveva pensato di fare un colpo del genere".

Dell’uomo si erano perse le tracce e la perquisizione in casa sua non aveva portato a nulla. Unico particolare una sveglia, trafitta da un coltello e incastrata nel muro: l’addio di Giuliano, un segno di cambiamento e di abbandono di quella vita fatta di orari e scadenze. Secondo quanto riportato all’epoca da La Stampa, la polizia ritenne "che avesse programmato con cura anche le ore della fuga: 12, minuto più minuto meno, da quando i sacchi con i finti soldi erano finiti nella cassaforte delle poste a quando un funzionario li ha aperti trovandoci carta straccia e, quasi una firma, la busta paga dell'autista ridotta in brandelli".

Ma Guerzoni non poteva aver fatto tutto da solo. Un complice doveva essersi nascosto nel furgone portavalori, per scambiare il contenuto dei sacchi. All’interno la vettura era infatti divisa in due parti: il piano di carico e una cassaforte, dove poteva essersi chiuso l’altro uomo, che al momento giusto usciva dal suo nascondiglio e scambiava i sacchi di soldi con quelli di carta straccia. Il complice poteva essere salito sul furgone prima dell’arrivo in via Nizza, quindi prima della presenza della scorta di polizia, per poi scendere solo una volta terminato il furto, quando il furgone era stato riportato al deposito, senza scorta. Questo complice venne identificato in Enrico Ughini, un amico di Guerzoni ex dipendente delle Poste, sparito anche lui dalla sera del furto. Su quel furgone però c’era anche Domenico Cante.

Successivamente, ricostruendo la vicenda, gli inquirenti scoprirono la presenza di un quarto uomo, Ivan Cella, amico di Cante, che avrebbe dovuto procurare i documenti falsi per la fuga, e di altre due persone che orbitavano attorno agli ideatori del furto. Gli "uomini d’oro", come li ribattezzò la stampa dell’epoca erano Giuliano Guerzoni, Domenico Cante, Enrico Ughini e Ivan Cella. Ad aiutarli intervennero anche Pasquale Leccese e Giorgio Arimburgo: il primo avrebbe dovuto consegnare una parte del bottino a due donne legate a Guerzoni, mentre il secondo avrebbe dovuto preparare l’arrivo degli "uomini d’oro" in Costa Rica. Ma lì non ci arrivò mai nessuno.

Gli omicidi

La scomparsa di Guerzoni e Ughini fece subito pensare a una fuga. Ma ben presto, gli inquirenti dovettero ricredersi. Il 13 luglio 1996 infatti un contadino notò che una parte di terra era stata alzata nei campi di Bussoleno, in Val di Susa. Sotto, in una buca, vennero ritrovati i corpi di Giuliano Guerzoni e di Enrico Ughini. L’autista del blindato indossava ancora la divisa delle poste: per questo i carabinieri supposero che fosse stato ucciso la stessa sera del furto miliardario. Il luogo del ritrovamento era a poca distanza dalla villetta di Domenico Cante, che divenne il sospettato numero uno, oltre che del furto anche dell’omicidio. Insieme a lui finì nel mirino degli inquirenti anche Ivan Cella.

Una volta trovati i corpi, i carabinieri si rivolsero allo “scambista”, come spiegato a Mistero in Blu dal maggiore Aldo Iacobelli: "Andiamo subito a chiedere al Cante sia del furto, per il quale era già indagato, sia della presenza dei cadaveri in località molto vicina alla sua abitazione". Non solo: "Contestualmente procediamo alle perquisizioni", spiegò il maggiore, aggiungendo che "nel camper constatiamo l’assenza del plaid e del sacco a pelo". E proprio in un sacco a pelo identico a quello mancante e riconosciuto dalla moglie di Cante era avvolto il cadavere di Guerzoni, mentre quello di Ughini era stato coperto da un plaid.

Così nel luglio 1996 Domenico Cante venne arrestato. Oltre agli oggetti mancanti, a tradire Cante fu, come specificò La Repubblica, "il ritrovamento sul suo camper delle mazzette usate per riempire i sacchi falsi con cui sono stati sostituiti quelli contenenti soldi e assegni". Non solo. Dietro al lavabo del camper dell’uomo, vennero trovate tracce di sangue. L’analisi dei periti non lasciò dubbi: "Il sangue trovato sul camper di Domenico Cante […] appartiene ad Enrico Ughini e Giuliano Guerzoni", scrisse La Stampa dopo la conferma di due consulenti della procura. L’autopsia determinò la causa della morte: a sparare "sono state una 7.65 e una seconda pistola, di cui non si conosce il calibro", riferì La Stampa. Una delle pistole venne individuata come appartenente a Domenico Cante e ai due sospettati vennero sequestrate alcune armi.

La fuga di Ivan Cella

Cante, secondo gli inquirenti, non fu il solo a compiere gli omicidi. Ivan Cella, 42enne amico dello “scambista” e gestore di una birreria, venne sospettato di essere complice nelle uccisioni dei due "uomini d’oro". Per questo venne indagato a piede libero. Successivamente emersero indizi a suo carico ma, prima che i carabinieri potessero arrestarlo, scappò insieme alla fidanzata Anna Cristina Quaglia. Era il 14 luglio 1996.

Da quel giorno, di Cella si persero le tracce per diversi mesi, a eccezione di una telefonata alla madre e del ritrovamento in Francia della sua auto, individuata dagli inquirenti a fine settembre 1996 nel parcheggio dell’aeroporto di Nizza. Poi, nel dicembre dello stesso anno, Cella e Quaglia vennero rintracciati in Albania, grazie alla collaborazione tra Interpol, polizia albanese e carabinieri del comando torinese. Nei mesi di latitanza, la coppia si sarebbe spostata diverse volte: dall’Austria all’Ungheria, fino in Romania, per poi approdare in Albania, dove Cella aveva iniziato a fare l’elettricista.

Così, l'"uomo d’oro" scappato alla cattura finì nelle prigioni albanesi. Ma non vi restò a lungo. Nel marzo del 1997, infatti, scoppiarono le proteste albanesi e il Paese precipitò in uno stato di anarchia, che portò anche all’apertura delle carceri. Da lì Cella e Quaglia riuscirono a scappare, rendendosi nuovamente latitanti: "Mentre si discuteva la richiesta di estradizione in Italia, la coppia è evasa approfittando dei tumulti dello scorso marzo. Per alcuni giorni - è certo - i due italiani sono rimasti attorno al carcere quasi distrutto. Poi hanno fatto perdere ogni traccia", scrisse La Stampa.

Per mesi i due latitanti rimasero dei fantasmi, nascosti da qualche parte nel mondo, muniti di una falsa identità. Poi, a fine agosto, vennero rintracciati e arrestati a Cochabamba, in Bolivia. "Erano arrivati su quel pianoro della cordigliera a fine marzo, dopo una fuga senza fine attraverso l'Albania in fiamme e gli aeroporti di Istanbul, Amsterdam, San Paolo do Brasil e Santa Cruz: fino a Cochabamba", riferì La Repubblica. Terminò così la fuga di Ivan Cella e Cristina Quaglia, che vennero estradati in Italia e sottoposti a processo.

Le condanne

Omicidio premeditato”. Questa era l’accusa a cui dovettero rispondere Ivan Cella e Domenico Cante. Secondo gli inquirenti, infatti, dopo il furto del 26 giugno, i due uccisero Giuliano Guerzoni ed Enrico Ughini, loro complici nella rapina alle Poste di Torino. Il processo iniziò nel gennaio del 1998 e, oltre a Cante e Cella, riguardò anche Giorgio Arimburgo e Pasquale Leccese, accusati di peculato, ma ritenuti estranei all’omicidio, e Cristina Quaglia, accusata di favoreggiamento.

Nel corso della seconda udienza, che si svolse in Corte d’Assise a Torino, Ivan Cella confessò: "Sono colpevole - disse, come riportato da Repubblica - Ammetto di essere implicato nel furto e di aver ucciso Giuliano Guerzoni". A far crollare l’uomo d’oro fu una perizia del Centro Investigazioni Scientifiche dell’Arma dei Carabinieri (Cis): il medico legale, infatti, aveva rinvenuto nella teca cranica di Guerzioni dei frammenti di plastica appartenenti a una particolare cartuccia, usata negli Stati Uniti per uccidere i serpenti. Quei pezzetti vennero poi confrontati con un altro frammento di plastica "di circa un decimo di millimetro", rinvenuto dal Cis nella canna della pistola sequestrata a Cella: c'era corrispondenza.

Dopo le ammissioni di Ivan Cella, anche Cante confessò l’omicidio. Ma le due versioni non combaciarono. Secondo Cella infatti, era stato Domenico a premere per primo il grilletto: "Mentre sistemo i soldi in una borsa, sento un colpo, e vedo Ughini a terra. Guardo d'istinto Guerzoni che si alza e viene verso di me: gli sparo che ce l'ho in faccia", disse, secondo quanto riportato da Repubblica. Completamente opposta risultò invece la versione di Cante: "Cella mi disse di sparare e io sparai. Ughini cadde a terra".

Alla fine del processo, i giudici condannarono Domenico Cante a 28 anni e 9 mesi di carcere, mentre Ivan Cella a 28 anni e 8 mesi, per l’omicidio dei due complici. A Giorgio Arimburgo e Pasquale Leccese vennero dati, rispettivamente, 2 anni e 4 mesi e 2 anni per ricettazione. Due anni anche a Cristina Quaglia, ritenuta responsabile di favoreggiamento. Cante morì in carcere nel 2004, a 48 anni, colpito da un infarto: "Io non ho ucciso", disse poco prima di morire, dando incarico al suo legale di preparare la richiesta di revisione del processo.

Per mesi gli inquirenti avevano cercato, oltre ai due latitanti e alle prove degli omicidi, anche il bottino miliardario del colpo. Ma i soldi non vennero mai ritrovati. "Il bottino l'ho sempre tenuto io - disse Cella durante il processo - ma non ho speso una lira. L'ho sepolto nella cantina della mia birreria e sono tornato a riprenderlo tre mesi dopo. L'ho affidato a tre finanziarie albanesi".

Di quel denaro però non si ebbe più nessuna notizia: sparì nel nulla e rimase il mistero degli "uomini d'oro".

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