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Chi si rivede...la "tessera della fame"

In tempo di crisi Caritas e associazioni di volontariato hanno fatto nascere i "supermercati della bontà": sono 178. Le persone in difficoltà usufruiscono di una card per fare la spesa che si affianca agli aiuti del banco alimentare

Chi si rivede...la "tessera della fame"

In tempo di guerra i poveri cristi potevano mangiare qualcosa soltanto grazie a lei, la carta annonaria. Era un ritaglio di cartoncino nominativo, su cui le generalità del titolare erano scritte con inchiostro indelebile, che dava diritto a recarsi, a scadenze prestabilite, in centri dove veniva distribuito cibo razionato. Funzionò per 10 anni, fino alle soglie del 1950. La gente la ribattezzò «tessera della fame» e fu uno dei simboli della povertà nell'Italia martoriata dalle bombe. Oggi funzionano alla grande altri tipi di tessere, cioè le carte fedeltà, che ai titolari offrono premi o sconti sulla spesa. Ma c'è un'altra card alimentare che sta prendendo piede nella penisola in preda alla crisi, e anch'essa dà la misura di quanto sia dura la condizione di coloro che non riescono a mettere assieme il pranzo con la cena.

È la carta che dà diritto a entrare nei 180 empori solidali aperti negli ultimi anni in Italia. Se negli anni Quaranta la tessera annonaria riportava una serie di strisce che i negozianti tagliavano e timbravano per attestare la consegna del cibo, questa degli anni Duemila è spesso magnetica, ha un codice a barre o Qr e funziona a punti. Il titolare ottiene un punteggio in base alla propria condizione, cioè al reddito e al carico familiare, che può spendere negli empori della solidarietà.

Prima necessità

Sugli scaffali sono in bella mostra una serie di prodotti di prima necessità, non soltanto alimentari ma anche giocattoli, prodotti per l'igiene personale, articoli di cancelleria. I cartellini non riportano i relativi prezzi quanto i punti da scalare dalla carta. Si può prelevare ciò che si vuole nei limiti delle disponibilità della tessera, che viene periodicamente ricaricata. I punti non utilizzati non si cumulano con quelli dei periodi successivi. A chi ha figli piccoli viene consegnata una card aggiuntiva che dà accesso a prodotti specifici, come pannolini o cibi per l'infanzia, ma anche quaderni e matite colorate.

Gli empori solidali sono gli ultimi nati nel tentativo di contrastare la povertà che cresce in Italia. Sono sorti da qualche anno per iniziativa della Caritas e del Csvnet, cioè la rete nazionale che collega i Centri di servizio per il volontariato. A dicembre i due enti hanno presentato il primo Rapporto nazionale che fotografa il fenomeno: 178 «supermercati» (che a oggi sono già saliti a 180 e toccheranno i 200 entro la fine dell'anno) aperti soprattutto nel Centronord, 99mila famiglie servite con 325mila persone seguite, di cui il 44 per cento sono straniere. I volontari coinvolti sono 5.200; i promotori sono per la maggior parte associazioni di volontariato (52 per cento), seguite da enti ecclesiastici diocesani o parrocchie (35), cooperative sociali (10) ed enti pubblici (3 per cento).

Di solito le realtà caritative consegnano alle persone in difficoltà somme di denaro frutto di collette o direttamente pacchi di alimenti in genere non deperibili: pasta, riso, olio, zucchero, farina, omogeneizzati, scatolame. La relazione tra chi dona e chi riceve è personale, riservata, discreta, e spesso sfocia in rapporti che vanno al di là della pura assistenza e talvolta si trasforma in amicizia duratura. Il gesto di vicinanza è semplice e libero, mentre il carico burocratico è lasciato alle strutture di raccolta e distribuzione, come per esempio il Banco alimentare.

Ma un conto è consegnare un pacco di cibo e instaurare un rapporto umano, un altro è aprire un emporio solidale e sobbarcarsi il conseguente peso della gestione: date di scadenza, garanzie di sicurezza, controlli sanitari, tenuta dei registri. Perché saranno anche solidali, ma questi supermercati della bontà non possono sottrarsi alle regole valide per gli altri negozianti. E poi i volontari devono darsi parecchio da fare per raccogliere soldi, perché negli empori il cliente non paga ma il gestore deve pagare l'affitto dei locali, le bollette (elevate soprattutto se ci sono i frigoriferi per i prodotti freschi), i mezzi di trasporto, il carburante e anche molti degli approvvigionamenti. In media, infatti, il 40 per cento dei prodotti disponibili viene acquistato.

La generosità, un'impresa

È un'evoluzione della generosità che deve assumere una veste quasi imprenditoriale. «Ma ne vale la pena - assicura Stefano Tabò, presidente della rete Csvnet -. Lo scopo degli empori è affiancare alla consegna degli alimenti, che resta l'attività principale perché soddisfa il bisogno primario del cibo, un'altra serie di servizi: informazione, orientamento, educazione ai consumi alimentari, sostegno scolastico, consulenza alla gestione del bilancio familiare, assistenza medica. Il tentativo è quello di guardare a tutti i bisogni delle famiglie, con particolare attenzione per chi ha in casa bambini e ragazzini».

All'emporio non entra chiunque. I volontari fanno colloqui e cercano di capire le reali condizioni della famiglia. Di regola il sostegno ha una scadenza, che va da 6 a 18 mesi ma in media è di un anno, con un rinnovo che va valutato caso per caso. A Ferrara, per esempio, l'accesso è regolato da un bando con requisiti precisi: tre quarti di quanti sono stati aiutati non si ripresentano più. Il criterio, spiega Tabò, è che si vuole intervenire per necessità momentanee, non è una «tessera di cittadinanza» o un bonus generico: «A noi stanno a cuore le persone, sappiamo che non possiamo risolvere tutto, ma se una famiglia fatica a pagare l'affitto o a trovare lavoro noi interveniamo dando da mangiare in modo che loro siano più liberi di pensare al resto. La selezione fa parte del percorso per costruire un rapporto con queste persone e responsabilizzarle». Un percorso che spesso coinvolte anche i servizi sociali o i centri di ascolto per individuare chi ha davvero bisogno.

Tutti a dare una mano

Spesso gli operatori degli empori propongono i beneficiari a rendersi disponibili a loro volta a dare una mano, magari scaricare un camion di prodotti o sistemare il magazzino: è un modo per «restituire» quanto hanno ricevuto, per rendersi conto che nella vita nulla è dovuto. I volontari si occupano dell'approvvigionamento, della distribuzione e dell'amministrazione. Ogni emporio fa le sue scelte operative, si cerca i prodotti e redige un suo bilancio: i costi da sostenere vanno in media da 1.000 a 4.500 euro al mese secondo le dimensioni della struttura, il numero di persone assistite, il tipo di beni messi a disposizione, che in parte possono essere ottenuti da donazioni ma in parte va acquistato: l'assortimento è lasciato alla libera scelta di ogni emporio in base ai bisogni e ai gusti, ma anche alle necessità del territorio.

Nelle strutture di dimensioni maggiori sono stati assunti anche lavoratori dipendenti, a tempo parziale, per garantire stabilità e continuità, oltre che a coordinare l'opera dei volontari e cercare di capire come essere più utili intercettando i nuovi bisogni.

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