Mondo

Deportazioni, assassini, stenti e fame: quel popolo senza pace da un secolo

Furono accusati dall'Impero ottomano di essere nemici al soldo della Russia zarista

«Arrivarono e ci fecero uscire tutti dalle case. Ragazze, donne, bambini: ci portarono tutti nel deserto. Così, come un agnellino, mi strapparono a mia madre. Mi misero sottoterra, mi seppellirono lasciando fuori solo la testa e si allontanarono dicendo: domani uccidiamo anche questo». Aveva 4 anni Mesrop Minassian, testimone bambino dei circa 600mila armeni scampati allo sterminio. Era il 1914. I turchi si presentarono nel suo villaggio, a Samsun, in Anatolia: «Radunarono gli uomini e li portarono via per arruolarli nell'esercito ottomano, così dicevano. Ma ci fu poi chi portò la notizia che lungo la strada li avevano uccisi tutti a colpi di accetta. Tra quegli uomini c'era mio padre». E non c'era solo il padre del piccolo Mesrop. Ormai gli storici hanno pochi dubbi sul fatto che furono tra un milione e un milione e mezzo i cristiani armeni deportati e massacrati tra il 1915 e il 1916. In pratica i due terzi dell'intera popolazione armena residente nell'Impero Ottomano. Un'operazione di pulizia etnica che si concluse con la quasi totale scomparsa dall'Anatolia non solo degli armeni ma anche della loro millenaria cultura: chiese, scuole, biblioteche e conventi.

Il 24 aprile è la data simbolo dell'inizio del «primo genocidio del XX secolo» così come lo definisce già il rapporto della Commissione dei diritti dell'uomo alle Nazioni Unite nel 1973. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile di cento anni fa il regime ottomano ordina l'arresto e l'esecuzione di cinquanta tra intellettuali e leader della comunità, che diventeranno in breve circa un migliaio. La loro colpa? Essere considerati una spalla della Russia zarista proprio quando, appena esplosa la Prima guerra mondiale, l'Impero ottomano si schiera al fianco della Germania e degli austro-ungarici. In realtà l'obiettivo è occupare le terre degli armeni e togliere alla minoranza cristiana l'illusione di riforme a tutela delle minoranze etniche. Così il regime dei Giovani Turchi corre ai ripari. Nel maggio 1915 una legge speciale autorizza le deportazioni «di tutti i gruppi sospetti» con una giustificazione vaga quanto forte: «motivi di sicurezza interna». È l'inizio della fine per centinaia di migliaia di «nemici» armeni provenienti dalle regioni dell'Anatolia e deportati verso i deserti della Mesopotamia. La morte arriverà per stenti e malattie lungo il tragitto, non risparmierà i campi dove gli armeni verranno esiliati e sarà implacabile di fronte alle violenze subìte dai guerrieri curdi al servizio degli ottomani. Molti documenti stilati da missionari, vescovi e delegati apostolici, conservati negli archivi del Vaticano, provano non solo la portata dello sterminio ma anche il ruolo della Santa Sede nel tentativo di fermarlo.

Eppure ancora oggi Ankara nega il «genocidio», che chiama «presunto», e punisce addirittura con il carcere chi lo definisce tale. Secondo il governo turco, che pure ammette qualche «massacro», le uccisioni furono al massimo 300mila, prevalentemente frutto di fame e stenti durante i «trasferimenti». E contro chi si ostina a parlare di «genocidio» scatta l'articolo 301 del codice penale, che prevede il «vilipendio dell'identità turca».

Un ottimo pretesto con il quale il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha tentato di zittire lo scrittore Orhan Pamuk e il giornalista di origine armena Hrant Dink, infine ucciso da un ultranazionista nel 2007.

Commenti