Schwazer dopato, le prove manipolate e i dubbi del giudice: "I conti non tornano"

Schwazer dopato, le prove manipolate e i dubbi del giudice: "I conti non tornano"

«I conti non tornano!», esclama alle sei di sera il giudice preliminare Walter Pelino. Da quell'istante Alex Schwazer - magro, tutto vestito di nero, seduto in prima fila nella panca degli indagati - capisce che forse il vento è girato. Perché nell'indagine che vede il marciatore altoatesino accusato di frode sportiva è entrato ufficialmente il dubbio. Il dubbio del complotto, che finora era sventolato da lui e dai suoi fan, è entrato ufficialmente nell'inchiesta. I conti non tornano, dice il giudice Pelino: e i conti che non tornano sono quelli cruciali dei centilitri di pipì in nome dei quali è stata ghigliottinata tre anni fa la seconda vita di Schwazer. Aveva scontato la sua condanna per doping, era tornato a vincere, si preparava a partire per le Olimpiadi: e sembrava prendere forma la bella storia che avrebbe dimostrato a tutti che alla «bomba» si può dire no, e che col sacrificio si può arrivare lo stesso davanti a tutti.

Invece la mattina di Capodanno 2016 arrivarono a casa sua gli ispettori della Wada e gli fecero riempire le provette. Fu l'inizio della fine. Saltò fuori il testosterone, arrivò la seconda squalifica, game over per la carriera di Alex. E anche il processo penale, con l'intero mondo dell'atletica ufficiale - la Wada, la Iaaf, la Federazione italiana - schierato contro di lui come parte civile. Ma i conti non tornano, come dice il giudice. Ed è come se il processo si capovolgesse, se a dover rispondere del suo operato non fosse più Alex ma la lobby che lo ha messo sotto accusa.

Di conti che non tornano ce ne sono tanti. I primi a far sbottare il giudice, sono quelli della pipì contenuta nelle provette e utilizzata per i test a Losanna. Giampietro Lago, il comandante dei Ris che ha avuto l'incarico della perizia, racconta cose incredibili su come i capi dell'antidoping mondiale lo trattarono quando andò a farsi consegnare i campioni: «Si rifiutarono in malo modo di farmi vedere il frigorifero dove erano custoditi, cercarono di rifilarmi una provetta senza sigilli e io dovetti rifiutarla». Il contenuto aumenta e diminuisce, sulle carte e nella realtà, in un andirivieni di centilitri. La «catena di custodia» del campione è andata a farsi benedire, ha spiegato ieri Lago.

Ci sono anche altri conti che non tornano: quelli del Dna. Nelle provette di Schwazer nel marzo 2017 ce ne sono mille picogrammi. Sarebbe già una concentrazione abnorme, l'italiano medio ne ha ottanta. Ma ieri Lago ha rivelato di avere fatto un esperimento: in un anno di congelamento, un campione di urina perde l'85 per cento del suo Dna. Vuole dire che il giorno del prelievo, a Capodanno 2016, Alex avrebbe avuto oltre diecimila picogrammi di Dna. Una enormità.

È un dettaglio tecnico, ma diventa il cuore dell'udienza. Il giudice chiede a Lago di fornire spiegazioni, di sbilanciarsi in ipotesi. Forse chi si dopa ha più Dna, dice il colonnello: ma di questo non c'è prova. Forse chi si superallena ha più Dna, ma nemmeno di questo c'è prova. E allora cosa resta? L'ipotesi più raggelante, quella che Lago abbandonando ogni cautela avanza, sotto giuramento: «È possibile che sia stato manomesso il campione, che il campione analizzato non fosse corrispondente all'urina donata quella mattina. È stato manomesso ed è accaduto qualcosa». Possibile, chiede il giudice? «Certamente, la catena di custodia non lo avrebbe impedito».

Lo spettro del complotto, la lobby del doping o dell'antidoping che vuole colpire il «pentito» Schwazer e soprattutto il suo mentore Sandro Donati, entra nel processo. La Wada cerca di ribattere tirando fuori una carta di un'altra analisi secondo cui nel marzo dello stesso anno nella pipì del marciatore c'erano 14mila picogrammi di Dna.

Ma ormai è un'arma spuntata, il giudice tradisce il suo scetticismo, la difesa di Schwazer parla di «boomerang». La parola passa alla Procura. Chiudere l'indagine chiedendo il processo per Schwazer appare ormai difficile. E chissà che non riparta l'altra inchiesta, finora silente, sui colpevoli del complotto.

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