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La lobby radical scesa in guerra contro gli atenei telematici

Su La Repubblica di domenica è uscito un vero e proprio dossier contro le università telematiche, intitolato La fabbrica delle lauree facili

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Su La Repubblica di domenica è uscito un vero e proprio dossier contro le università telematiche, intitolato La fabbrica delle lauree facili. Si tratta di una lunga filippica che contiene una grande quantità di inesattezze e che si basa su assunti assurdi. Va comunque letta come una vera e propria dichiarazione di guerra, perché è ormai chiaro come l'accademia gravitante attorno al Pd e alla Cgil (egemoni nelle università di Stato) si proponga di spazzare via questa possibile, potenziale, alternativa.

Il peccato originale degli atenei online sarebbe di essere privati. Per la gauche caviar è insopportabile che vi sia chi ha investito somme considerevoli nell'alta formazione e che queste nuove realtà universitarie, indubbiamente di successo, si reggano sulle rette liberamente messe a disposizione dagli studenti: senza oneri per lo Stato. Quei dipendenti pubblici che nei decenni scorsi sono riusciti a costruire una vera egemonia gramsciana sulla cultura universitaria tutto vogliono meno che si abbia un'offerta plurale, diversificata, con soggetti assai differenti tra loro e modelli didattici in competizione. L'apparato politico-burocratico è dunque schierato a protezione di interessi ben precisi a partire dal potere dei baroni universitari e da preoccupazioni ideologiche di lungo periodo.

Una così rocciosa difesa dell'esistente sembra però ignorare un dato macroscopico del nostro cronico ritardo, e cioè il fatto che in Italia avremmo bisogno di un'offerta universitaria ben più ampia di quella attuale, dal momento che nella classifica europea che riporta la percentuale dei laureati ci collochiamo al penultimo posto: peggio di noi fa soltanto la Romania, che però ha numeri migliori nelle facoltà scientifiche. In alcune aree d'Italia (il Mezzogiorno, in particolare) e in talune fasce d'età (quanti hanno più di trent'anni), soltanto le università online sembrano offrire una seria possibilità di studiare e laurearsi a coloro che lavorano.

Se negli Stati Uniti, in Francia, nel Regno Unito o in Germania la percentuale dei laureati è doppia oppure tripla non è perché tutti vadano a Harvard oppure a Oxford, ma perché esiste un gran numero di atenei molti dei quali online che fanno il possibile per predisporre percorsi adeguati alle esigenze degli studenti e in grado di aiutarli nella formazione e nel miglioramento delle prospettive lavorative.

Un certo classismo da ZTL emerge con chiarezza anche dal livore che la sinistra manifesta ogni volta che affronta questo tema. Nel corso di tale campagna diffamatoria si usano vari temi, non sempre coerenti tra loro, ma uno di questi è che gli atenei telematici non sarebbero abbastanza selettivi. Ammettiamo per un attimo che sia così. Sarebbe come se qualcuno volesse contestare il fatto che, a quattordici anni, molti ragazzi non scelgano il liceo classico, ma invece le scuole professionali (anche se con quei diplomi meno competitivi si può avere accesso a ogni università). Questa presunta facilità dei percorsi online, per giunta, è tutta da dimostrare dato che nelle telematiche soltanto il 28,2% dei laureati prende un voto uguale o superiore al 106/110, mentre la percentuale sale al 49,6% negli atenei in presenza.

Un altro argomento, ancor più risibile, prende di petto la frequenza ai corsi. Questa accusa rivolta alle facoltà telematiche è però un boomerang. Secondo i dati di Almalaurea, infatti, circa il 30% degli studenti delle università tradizionali segue meno del 75% delle lezioni, mentre le università online richiedono un'alta percentuale di completamento di frequenza alle video lezioni, con tanto di test finale di autovalutazione: tipicamente tra il 70% e l'80%.

Infine, le università pubbliche e in presenza dicono di temere la concorrenza di quelle online, ma una simile preoccupazione è infondata, dato che soltanto il 2,9% degli immatricolati con meno di 23 anni sceglie una telematica. Ancora oggi, il tipico studente degli atenei online è un lavoratore voglioso di crescere, studiare e avere migliori prospettive lavorative. Davvero non si capisce perché bisognerebbe penalizzarlo.

In realtà, un tempo le università tradizionali erano in grado di porsi al servizio degli studenti lavoratori. Quando avevo vent'anni, a Genova (in via Balbi), tutta una serie di corsi erano tenuti in orario serale, proprio per permettere ai lavoratori di frequentare le lezioni. Perché le università tradizionali non si chiedono come sia stato possibile che abbiano perso pure questo treno? Perché non utilizzano al meglio gli strumenti telematici di cui già dispongono e che nel biennio pandemico sono stati l'unica possibilità di insegnare e studiare?

La scienza economica insegna che chi non regge la concorrenza solitamente cerca di catturare il regolatore: prova a comprare l'arbitro nella speranza di ottenere un rigore che non c'è.

Questa guerra condotta dagli apparati pubblici universitari contro gli atenei privati ne è davvero la conferma.

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