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Il match fantasma tra le Coree

Il match fantasma tra le Coree

Gianni Infantino, presidente della Fifa, era sorridente durante l'incontro di calcio tra le due Coree. Stava seduto in tribuna autorità e, per testimoniare la propria felicità, aveva appuntato, all'occhiello della giacca, la spilla distintiva della Corea del Nord, una stella rossa a cinque punte su cerchio bianco e due strisce blu che affermano l'indipendenza, l'amicizia e la pace. La Fifa, con l'astuzia diplomatica lasciata in eredità da Sepp Blatter, aveva designato per la partita un arbitro del Qatar, Abdulrahman Al Jassim, cittadino di un Paese che onora quotidianamente la libertà di opinione e di pensiero, oltre ad altri elementari diritti umani ma che, nonostante ciò, ospiterà la coppa del mondo del 2022. Designazione ideale per Pyongyang, sede della sfida calcistica, nello stadio intitolato a Kim Il Sung, «presidente eterno» della Corea del Nord che, nel 1950, con l'appoggio sovietico provvide a invadere le terre del Sud. L'impianto, illuminato a giorno, era spettacolarmente vuoto in ogni ordine di posto, fatta eccezione per i troni presidenziali di cui sopra. Vietato l'ingresso a tifosi, turisti, telecamere, radio, fotografi, se non uno, in esclusiva, del Minculpop comunista di regime, vietati telefoni cellulari, vietata qualunque comunicazione dell'evento i cui dati sono stati, poi, messi in circuito dal sito Fifa e da quello della confederazione asiatica. Riassunto: tralascio le formazioni da tabellone oculistico, risultato zero a zero, quattro ammoniti, niente Var, soltanto un dvd consegnerà ai posteri le immagini salienti, così si diceva, un tempo, nel mondo occidentale. Anche la conferenza stampa di vigilia aveva seguito lo stesso cerimoniale, cinque giornalisti, tutti esclusivamente coreani del nord, tre domande a Paulo Bento, l'allenatore portoghese della nazionale del sud, nessun fermento di ultrà e affini, chiuse le biglietterie, respinti alla frontiera o tenuti a distanza, negli alberghi, i tifosi venuti da Seul o da altri siti democratici, Kim Jong Un non tollera critiche e contestazioni, meglio evitare i fischi e i cori nello stadio in caso di sconfitta, il football è un gioco pericoloso tra due Paesi in lotta continua, nonostante tentativi di disgelo più folkloristici che effettivi. A Kim interessano i missili, il pallone è roba che puzza di capitalismo. Così vuole il regime, nel silenzio delle istituzioni calcistiche che, in cambio di un voto, riescono a stringere mani lerce o insanguinate per poi dedicare pensieri e parole sul razzismo che imperversa in Italia. A Pyongyang, invece, silenzio assoluto, sugli spalti e in tribuna. Non è un momento facile per il football, che deve fare i conti con la politica e le guerre. La partita tra le due Coree è stata un miserabile ballo in maschera, con la complicità interessata di chi, invece, dovrebbe garantire l'indipendenza, l'amicizia e la pace non soltanto con il distintivo all'occhiello. Infantino, a fine partita, si è detto deluso: «La libertà di stampa è di primaria importanza». Bravo ma lento. Bastava alzarsi e salutare.

Prima del fischio, prima della delusione, prima della vergogna.

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