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La rivolta uccide il lusso

La rivolta uccide il lusso

Hong Kong è ufficialmente in recessione per la prima volta da dieci anni. Il prezzo delle rivolte è stato un calo del Pil del 3,2% registrato tra giugno e settembre rispetto al secondo trimestre dell'anno (-2,9% su base annua). Il governo dell'ex colonia britannica si è visto costretto a tagliare drasticamente le stime sull'anno: da una attesa crescita del Pil dell'1% a un calo dell'1,3 per cento.

Dopo mesi di proteste, la recessione per la metropoli potrebbe essere più lunga e profonda rispetto sia a quella attraversata nel corso della crisi mondiale, sia a quella innescata dalla Sars nel 2003. Gli economisti lanciano l'allarme. Le prospettive per l'immediato futuro sono tutt'altro che rosee visto che le manifestazioni stanno allontanando i turisti e penalizzando consumi. Non solo. Mentre Alibaba, il gigante dello shopping online cinese, ha annunciato la quotazione sul listino di Hong Kong, i brand del lusso iniziano a rivedere la loro presenza in quello che gli scontri degli ultimi mesi hanno trasformato da eden redditizio per lo shopping di alta gamma a paradiso perduto.

L'esodo, appena iniziato, potrebbe trasferire in altre metropoli cinesi l'epicentro dello shopping asiatico di alta gamma. Chanel, a causa dei disordini, ha rinviato una sfilata (Cruise 2020) a «un momento più appropriato», senza indicare quale e ha fissato a Capri l'appuntamento Cruise 2021. Prada, che nel 2011 aveva scelto di quotarsi proprio a Hong Kong, ha annunciato la chiusura del suo flagship store di Russel Street (una strada che, qualche anno fa, aveva superato la Fifth Avenue per i prezzi al metro quadro) quando, a giugno, scadrà il contratto di locazione.

Secondo uno studio di Bernstein, Hong Kong finora valeva tra i 14 e i 28 miliardi di dollari all'anno nel solo alto di gamma (pari 5-10% delle vendite mondiali di beni di lusso) grazie soprattutto ai millennial cinesi, che visitavano l'ex protettorato inglese per fare shopping. Con i disordini quotidiani, la chiusura dei negozi, il crollo delle presenze - si calcola un calo da 40 a 53 milioni di turisti cinesi continentali - il mercato del lusso di Hong Kong potrebbe essere arrivato al capolinea o comunque essere fortemente ridimensionato.

Solo ad agosto le vendite di gioielli e preziosi sono crollate del 47,4%, più in generale -23% le vendite al dettaglio. E tra gli analisti c'è chi come Rbc ipotizza un crollo verticale delle vendite dei brand fino al 60 per cento.

E, in effetti, pochi giorni fa i conti di Salvatore Ferragamo hanno mostrato come le vendite di Hong Kong siano affondate del 45% tra gennaio e settembre, penalizzando i conti del gruppo fiorentino (del 3,6%, a cambi costanti, nel trimestre) per cui la metropoli asiatica rappresenta il 7% circa del fatturato. Proprio per questo la maison ha poi messo in guardia il mercato: il rallentamento dei ricavi e della redditività potrebbe proseguire anche sull'ultima parte dell'anno. I disordini di Hong Kong sono pesati anche sui conti di Tod's che ha chiuso i nove mesi con ricavi in calo del 4 per cento. Quanto a Moncler, per cui Hong Kong rappresenta il 6% delle vendite, l'ad Remo Ruffini ha invocato prudenza sui conti proprio a causa della rivolta. «Se non ci fosse Hong Kong sarebbe un bell'anno», ha affermato l'ad.

Penalizzati anche i brand stranieri come Burberry che genera l'8% del suo fatturato a Hong Kong e, proprio a causa dell'impatto dei disordini, ha tagliato i propri obiettivi di redditività.

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