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Sport, i buu e l'ipocrisia nella terra senza diritti

Sport, i buu e l'ipocrisia nella terra senza diritti

In Italia la stampa sportiva non può scrivere «nero» neanche come metafora, che subito scatta l'accusa di razzismo. Così come se qualche fesso rivolge insulti a un calciatore di colore, soprattutto se famoso, blasonato e discusso, non sono solo tutta la squadra e tutti i tifosi a essere crocifissi, ma addirittura l'intera città, bollata come razzista, come se fosse la capitale dell'Alabama negli anni Cinquanta (ci riferiamo, per chi non l'avesse capito, a Verona). Belli questa sensibilità, questo senso dell'etica, questo «nuovo umanesimo», questo sprezzo dei compromessi nel mondo dello sport, e del calcio in particolare, sempre accusato di insensibilità e di attrazione verso il soldo. Però l'antirazzismo, la lotta per i diritti dell'uomo, delle donne (vedi tutta la prosopopea sul calcio femminile) e delle minoranze dovrebbero essere perseguiti ovunque. Proprio perché si parla di «valori», essi sono universali, indipendenti cioè dalla latitudine. Ma allora perché il mondo dello sport mondiale, e quindi anche quello italiano, calcio soprattutto, ha eletto a propria meta preferita l'Arabia Saudita? Se vi è infatti un Paese in cui sono calpestati i diritti umani e i principi etici approvati dalle diverse federazioni mondiali dei vari sport, questo è proprio l'Arabia Saudita. E non ci stiamo referendo solo al rispetto delle garanzie al di fuori delle competizioni: stiamo proprio parlando della possibilità di accedervi. Solo dopo molta insistenza, il regime di Riyad ha per esempio deciso di consentire alle donne di poter assistere agli eventi sportivi, beninteso in una parte separata degli stadi e ovviamente debitamente velate. Al di fuori delle gare, poi, i giornalisti non sono trattati molto bene (vedi l'assassinio di Jamal Khashoggi) e, secondo diverse organizzazioni dei diritti umani, le donne in lotta per il riconoscimento di una sorta di parità sono arrestate e torturate. Ma non va meglio neppure ai maschi: il governo di Riad lo scorso aprile ha giustiziato in un giorno solo 37 islamici sciiti accusati di avere preso parte a manifestazioni antigovernative. Per non parlare degli omosessuali. Quanto al razzismo, la popolazione lavoratrice extra-araba, immigrati provenienti da Paesi asiatici, è trattata in un modo che a diversi osservatori ricorda lo schiavismo. Senza dire poi della rigida applicazione della Sharia, la legge islamica, e, vabbè, della più totale assenza di democrazia. Tutti aspetti su cui almeno la stampa italiana specializzata, pronta a stracciarsi le vesti al minimo ululato che si alza dagli spalti dei nostri stadi, pare piuttosto silente. E silenti sono soprattutto i club e i loro presidenti: ci credo, Riad ha messo sul banco per i prossimi anni 650 milioni di dollari di investimenti per attirare eventi sportivi, un gesto che ha soprattutto finalità politiche: fornire agli occhi del mondo una legittimità riformista al nuovo principe Salman. Lo sport è sempre stato la politica praticata con altri mezzi, e in questo caso più che mai. Perciò i club intenzionati a giocare là sanno, o dovrebbe sapere, che supporteranno un regime esplicitamente ostile ai principi di cui, un po' ipocritamente, essi si fanno difensori a casa propria. Tanto è vero che negli Usa Novak Djokovic e Rafael Nadal hanno ricevuto nei mesi scorsi durissime critiche per avere giocato in Arabia Saudita. Noi non chiediamo per carità il boicottaggio, conosciamo le leggi della politica e dell'economia.

Ma che almeno ci risparmino l'ipocrisia, mentre sono in allegra partenza per Riad, delle lezioni di femminismo e di diritti dell'uomo.

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