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Il tramonto dell'Occidente

Indietro di vent'anni: i talebani prendono il potere, parte la caccia casa per casa. Jihadisti già in libertà: adesso torna l'incubo del terrorismo

Il tramonto dell'Occidente

Il tramonto dell'Occidente: prendendo in prestito il titolo di un libro del filosofo Oswald Spengler, così si potrebbe definire questo tornante della Storia che vede i talebani risorgere venti anni dopo sulle ceneri dell'alleanza occidentale che era nata come reazione all'attentato alle Torri gemelle. Quei corpi che cadono da un aereo all'aereoporto di Kabul, che ricordano quelli che precipitarono da un elicottero da Saigon o dalle Twin Towers, rappresentano l'immagine non solo della fuga degli Stati Uniti dalle loro responsabilità ma dell'intero Occidente. Una disfatta di cui sono chiari i problemi che pone nel presente, meno nitide e per questo preoccupanti le conseguenze future. Sul presente è evidente che il controllo talebano dell'Afghanistan offrirà al terrorismo islamico un nuovo riferimento internazionale e un possibile Stato ospitante, cioè le ragioni della guerra di due decenni or sono. I segnali che si rischi di tornare alla situazione precedente ci sono tutti: il nuovo comandante generale dei talebani Haibatullah Akhundzada è stato già definito «emiro dei credenti» dal capo di Al Qaeda Ayman al-Zawahiri, in riconoscimento della sua autorità; uno dei leader talebani che ha parlato ad un'emittente saudita è Gholam Rouhani, per otto anni detenuto a Guantanamo; sono stati liberati tutti i detenuti dai carceri afghani compreso un folto gruppo di jihadisti; è stata reintrodotta la shari'a e le donne hanno perso in dieci giorni tutte le conquiste degli ultimi 20 anni. Questo è il risultato immediato. Il bilancio della politica di questo ventennio è ancora più pesante: in dieci giorni è crollato lo Stato afghano forgiato dagli occidentali; il disimpegno si è trasformato in un'ingloriosa fuga; sul campo sono rimasti 87 miliardi di dollari investiti dagli Stati Uniti in due anni, in buona parte armamenti moderni di cui d'ora in avanti si avvarranno i talebani. Per non parlare del destino che attende quella parte della popolazione afghana che ha lavorato o supportato la scommessa sull'avvento della democrazia in questa parte dimenticata del mondo: che fine faranno, ma soprattutto, chi d'ora in avanti, nelle aree più a rischio del pianeta, si fiderà della parola dell'Occidente?

È qui il segno distintivo di un ritiro che si è trasformato in disfatta, deciso sull'onda del politicamente corretto, con il peggior pressappochismo sia nell'analisi della realtà afghana, sia nell'organizzazione militare. Per l'immagine di Biden la gestione del disimpegno in Afghanistan può esser dannosa come la gestione della guerra in Vietnam per Nixon. La lezione per gli Usa è che quando ti tuffi in un intervento armato a livello internazionale, non puoi interromperlo quando ti fa più comodo, altrimenti è meglio desistere. Discorso che vale pure per l'Europa, che in più dovrebbe rivendicare un maggior coinvolgimento nelle decisioni di Washington: il Vietnam riguardò solo gli Usa, l'Afghanistan avrà ripercussioni sull'intero Occidente. Specie se sono scelte che incidono sullo scacchiere mondiale: dietro la disfatta di Kabul si staglia, infatti, l'ombra della Cina; il suo desiderio di mettere in discussione i vecchi equilibri in ossequio alle proprie mire egemoniche.

In economia ma non solo.

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