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Cudicini, un ragno di 70 anni «Abbiati bocciato sul secondo gol»

«Dida è un grande, ma se sbaglia va in crisi. Mio figlio Carlo? Mourinho l’adora»

N onno Ragno è in grande forma. Nonno Ragno è Fabio Cudicini, un calcio fa portiere leggenda di un Milan d’altri tempi e adesso imprenditore a tempo pieno (vende moquette) oltre che appassionato di calcio. Lo chiama così, Nonno Ragno, quel birbante di Tommaso Inzaghi, figlio di Simone e di Alessia Marcuzzi, compagna di suo figlio Carlo, portiere nel Chelsea, non proprio a tempo pieno. «Mourinho lo adora anche se non lo fa giocare» chiosa arrotando la sua erre. Per fortuna sua e nostra, Fabio Cudicini, oltre a portare a spasso con spavalderia i suoi strepitosi 70 anni (auguri e candeline oggi), è di quelli che non vivono di ricordi e di nostalgia canaglia. Solo quella maledetta schiena, che lo tormentò da calciatore, ora gli infligge qualche smorfia e la necessità di esercizi fisici della durata di 25 minuti al giorno, appena sveglio. Gli piace il calcio dei nostri giorni, lo frequenta e lo studia, «leggo i giornali, vedo le trasmissioni specializzate», attraversa l’Inghilterra al seguito del figlio Carlo e ha una poltroncina prenotata a San Siro, viaggia sulla scia del Milan perché l’antico sodalizio s’intreccia con le amicizie conservate nel mondo Berlusconi ed è pronto a ogni domanda. Sia se deve spiegare la recessione negli stadi («i fattori sono due: la grande offerta tv da una parte, la condizione economica delle famiglie che scelgono l’evento da seguire, le altre se le vedono, comodi, a casa»), sia se deve giudicare la qualità degli stadi italiani («San Siro è ancora buono, cambierei solo quel tabellone obsoleto, si vede malissimo la pubblicità, impossibile far passare le immagini delle azioni più spettacolari»).
Dalle notti in cui lo battezzarono Ragno Nero, a Manchester, è cambiato non solo il calcio ma il mestiere del portiere. «Allora io e Lovati con i nostri 191 centimetri eravamo un’eccezione, Luison, alto 1,65, sembrava una palla di gomma, era invece la regola. Io seguo basket e tennis e colgo anche lì progressi generazionali» ammette. Dev’essere per questo che il calcio attuale non riesce a scandalizzarlo. «C’è qualche esasperazione di troppo» osserva. «Ai miei tempi, a Roma, la relazione tra Lojacono e Claudia Mori provocò un autentico scandalo» ricorda. Non ha grandi rimpianti da coltivare, neanche rimorsi. «Mi ruga un po’ aver frequentato poco la Nazionale. Prima mi sono imbattuto in Buffon e Ghezzi, poi in Albertosi e Zoff» spiega sereno. Poteva fare la sua bella figura. «Nel Milan prendevo pochi gol grazie a quella difesa: su tutti segnalo Malatrasi, chiudeva la porta all’attaccante, tanto da costringermi a muovermi per vedere la palla» stabilisce.
Non scappa nemmeno dai paragoni. «Era più forte la difesa milanista con Tassotti, Baresi, Costacurta e Maldini: noi giocavamo attaccati agli uomini, loro in linea», fa. Non riesce a esser severo con Abbiati. «Ha sbagliato sul secondo gol, non sul primo, è stato sfigato» spiega. Il Cudicini dei nostri giorni è forse Dida, «ha un tallone d’Achille, se fa un errore, lo somatizza e se lo trascina dietro per troppo tempo». Il primo della classe resta Buffon Gianluigi, il fuoriclasse del ruolo. «Dietro c’è posto per Peruzzi e De Santis dell’Udinese, Mirante il futuro prossimo» scommette. Deve quasi tutto a Foni e al Paron. «Un giorno, a Mantova, giocavamo male, il Paron entrò nello spogliatoio, sbraitò e prese a calci una valigia: dentro c’era il ferro da ciabattino per sistemare le scarpe. Non disse niente ma confessò a Bergamasco: Marino, ho un piede rotto.

Alla fine vincemmo noi del Milan e gli passò tutto, anche il dolore».

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