Cultura e Spettacoli

Avedon e i suoi scatti raccontano quasi un secolo d'America

In occasione della fashion week, Milano omaggia Richard Avedon con una mostra a Palazzo Reale. Il fotografo, che spazzò via la distinzione tra foto commerciali e scatti artistici, ha interpretato tramite i suoi ritratti almeno ottant'anni di vita e storia americana.

Avedon e i suoi scatti raccontano quasi un secolo d'America

Scattava in bianco e nero, ma non vedeva affatto in bicromia. Richard Avedon è stato non solo un fotografo di moda, come spesso grossolanamente si ricorda, ma uno dei principali ritrattisti d’America nonchè interprete del mutare dei decenni a stelle strisce (ma non solo).

Dal 22 settembre fino al 29 gennaio 2023 Milano ospiterà a Palazzo Reale gli scatti del grande fotografo (martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica 10.00 -19.30 Giovedì 10.00 - 22.30). La mostra, promossa dal Comune di Milano-Cultura, prodotta e organizzata da Palazzo Reale e Skira Editore in collaborazione con il Center for Creative Photography e la Richard Avedon Foundation è curata da Rebecca Senf, responsabile della collezione del Center for Creative Photography e vede come main partner Versace e media partner Vogue Italia.

L'Avedon delle origini

Quando Avedon nacque, nella New York del maggio 1923, la città ribolliva d’immigrazione. Alla Casa Bianca, il presidente Harding sarebbe morto quell’estate, per lasciare il posto a Coolidge. Liberatasi dalle finzioni e dal peso della Gilded Age, l’America viaggiava fiduciosa verso i ruggenti anni Venti.

L’amore per la fotografia inizia in tenera età, tra il club fotografico della Young Men's Hebrew Association e il liceo frequentato nel Bronx. Come per tanti giovani americani, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale implicò l’arruolamento -come "ufficiale fotografo"- presso la Marina mercantile di Uncle Sam. Si occupava di foto d’identità, di giovani vivi come lui ma anche di cadaveri straziati dalla guerra. Come egli stesso raccontò:

“Il mio lavoro era fare fotografie di identità. Devo aver fotografato centomila volti prima che mi venisse in mente che stavo diventando un fotografo"

Richard Avedon

Dopo appena due anni da soldato, non potè che definirsi un fotografo e congedarsi.

All'età di ventidue anni, Avedon iniziò a lavorare come fotografo freelance, diremmo oggi, principalmente per Harper's Bazaar, la storica rivista di moda fondata nel 1867. Ma nessun modello o nessun abito venne mai ritratto in studio in quegli anni: gli shooting di Avedon passavano per la strada, i locali notturni, i circhi, le spiagge: il confine tra foto commerciale e artistica veniva definitivamente abbattuto nell’America del Dopoguerra.

Il boom dall'obiettivo di Avedon

E sono proprio i lati oscuri dell’America del boom, quella delle moltitudini contraddittorie di Walt Withman, i nuovi soggetti preferiti da Avedon. Dopo anni dedicati a immortalare la vita newyorkese, con una particolare attenzione per la bruclicante vivacità di Harlem, toccherà puntare l’obiettivo altrove: su Marilyn Monroe, ad esempio, fasciata da un abito scollato e pensosa, o sul celebre Truman Capote, ritratto seminudo e diafano. Ma nel suo racconto d’America c’è spazio anche per una delle figure più controverse della scienza, il fisico Robert Oppenheimer, ritratto in quel Princeton nel pieno del suo tormento per essere diventato, come egli stesso ammise “Morte, il distruttore di mondi”.

E poi le comparsate dei nobili europei, da sempre invisi in terra americana come i duchi di Windsor (ritratti nelle stanze di velluto del Waldorf Astoria), ma anche le dinastie democratiche d’Italia, verso la quale nutrirà sempre un certo affetto. Suo è un elegantissimo ritratto di donna Marella Agnelli del 1953, ove il collo lungo ed elegante della consorte dell'Avvocato fece innamorare la camera di Avedon, che la ribattezzò “il cigno”. Nemmeno poeti e scrittori sfuggirano agli scatti dei Fifties di Avedon: Dorothy Parker e Ezra Pound, solo per citarne alcuni.

Avedon e l'America tra sogno e dramma

Gli anni Sessanta fanno scontare ad Avedon la sua apertura mentale, il suo sogno di un’America senza divisioni. Gli scatti del decennio denunciano e gettano il faro sulla comunità nera e le sue richieste. Quelle istanze vennero documetate soprattutto il Louisiana: nei volti delle debuttanti avvolte nei pizzi e nei merletti, nella disperazione dei pazienti dell’ospedale psichiatrico di Jackson, nelle coppie miste seminascoste. Ma c’è anche la normalità degli incidenti stradali sulle Interstate o le battaglie dello Student Non-Violent Coordinating Committee.

La musica di quegli anni non fu esente dallo sguardo indagatore della camera oscura di Avedon che ritrasse un giovanissimo menestrello di nome Bob Dylan nel suo iconico trench; ma anche la graffiante Janis Joplin, appena un anno prima dalla sua tragica amorte che spalancava sotto l’America opulenta l’abisso delle droghe pesanti consumate dai giovani. Di quella vena violenta e contraddittoria di cui andava vestendosi la fine degli anni Sessanta, fu simbolo il ritratto del petto e del ventre di Andy Warhol: il 3 giugno 1968, una femminista radicale nonché artista frequentatrice della sua “Factory”, Valerie Solanas, gli sparò, ferendolo gravemente. Sopravvisse a malapena: i chirurghi dovettero aprirgli il petto per riattivargli il cuore. Tre giorni dopo, Bob Kennedy veniva assassinato. Due mesi prima era toccato a Martin Luther King.

Il lungo viaggio di Avedon nell'America degli anni Settanta

Degli anni Settanta Avedon fotografa il dramma, immortalando il volto di una donna di Saigon devastato dal Napalm; le conquiste, come nel ritratto di Shirley Chisholmil, prima donna nera eletta al Congresso; ma anche il lato oscuro del potere, come nella posa dell’allora direttore della CIA George Bush: all'inizio del 1976 era stato il presidente Ford a richiamarlo a Washington, nominandolo a capo dell’intelligence dopo che Langley venne colpita da un'indagine del Senato sulle sue attività illegali. Sono anni di foto anche molto intime, come i ritratti di suo padre, divorato dal cancro, esposti nel 1974 al Moma di New York.

Negli stessi anni si afferma come grande ritrattista commerciale, immortalando abiti sfavillanti e bellissime modelle, sedimentando importanti collaborazioni con Calvin Klein, Revlon, Versace e dozzine di altre aziende hanno portato ad alcune delle campagne pubblicitarie più famose della storia americana. Nel 1976, per la rivista Rolling Stone, produsse "The Family", un ritratto collettivo dell'élite del potere americano per i duecento anni dalla nascita degli Stati Uniti.

Nel 1978 Avedon, costretto al riposo per via di una pericardite, ricevette una sfida da Mitchell A. Wilder, direttore dell’Amon Carter Museum di Fort Worth: realizzare una serie di foto che costituissero “il grande ritratto del West americano", offrendosi di pagare al fotografo 100.000$ all’anno. L’avventura al profumo di acetato durò per cinque anni consecutivi tra il 1979 e il 1984. Avedon e il suo team di assistenti viaggiarono in lungo e in largo per diciassette Stati in cerca di volti. Ritrassero le tute sporche degli operai, le mani spellate dall’acqua delle cameriere, i volti torti dal tempo dei malati mentali, il silenzio dei detenuti, il lavoro dei bambini cresciuti troppo in fretta, la miseria dei vagabondi. La maggior parte dei soggetti mostrava una qualche forma di anomalia o mutilazione come Dave Timothey, un uomo vittima dei test nucleari a Orem con il collo deformato dall’esposizione radioattiva.

Gli ultimi anni

Negli ultimi vent’anni di attività Avedon si dedicò alle mostre a lui dedicate e tantissimo alla moda, firmando ben due calendari Pirelli e dandosi quasi completamente alle top model che incarnavano il modello della donna yuppi. Nel 1991 ottenne il prestigioso riconoscimento mondiale dell’Hasselblad Award, premio istituito nel 1979 da Erna e Victor Hasselblad con il fine di dare un accento maggiore alla ricerca e l’educazione alla fotografia.

Ma non si dimenticò mai di ciò che davvero era, un cantore d'America a suon di click. Gli ultimi anni della sua vita li ha dedicati al racconto politico della sua nazione percossa e attonita. Per il New Yorker, infatti, nei primi anni Duemila avrebbe dovuto completare un progetto chiamato "Democracy", un portfolio sulla politica d'Oltreoceano.

Di sè ripeteva continuamente che ogni giorno senza aver fatto qualcosa legato alla fotografia, era un giorno nel quale gli pareva di non essersi nemmeno svegliato.

Non si svegliò per davvero, questa volta da un'emorragia cerebrale, il 1 ottobre del 2004.

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