Cultura e Spettacoli

Da nessun’altra parte al mondo la morte è tanto vicina alla vita

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo qui un reportage di Joseph Roth, per la prima volta tradotto in Italia, tratto da Viaggio in Albania (Passigli, pagg. 72, euro 8; a cura di Vittoria Schweizer)

Da nessun’altra parte al mondo la morte è tanto vicina alla vita

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo qui un reportage di Joseph Roth, per la prima volta tradotto in Italia, tratto da Viaggio in Albania (Passigli, pagg. 72, euro 8; a cura di Vittoria Schweizer). Il volume raccoglie nove articoli dello scrittore austriaco (otto per la Frankfurter Zeitung, del 1927, e uno per il giornale Pariser Tageszeitung, del '39), tutti inediti tranne due, già tradotti da Adelphi nel 1995 nella raccolta Il museo delle cere.

L'Albania è un povero paese ricco. È ricco di boschi, minerali, rocce. È povero di uomini, soprattutto di quelli che potrebbero capire come trarre vantaggio dai tesori del Paese. Gli albanesi sono pastori dalla nascita. Solo controvoglia si dedicano all'agricoltura. Solo con riluttanza si dedicano a mestieri cittadini. Non amano praticare il commercio. Gli affari sono miseri nelle misere città, a Durazzo, a Tirana, a Elbasan. Gli albanesi insediati nelle città sono eccellenti artigiani: forgiatori d'argento e rame, ceramisti e calzolai. Lavorano per strada, davanti alle loro case. I muli, che poi cavalcano fino ai borghi vicini, aspettano tranquilli lì accanto. Per strada siedono quelli che preparano il caffè. Fanno un caffè turco forte, dolce, sul fuoco vivo. Come nella gran parte dell'Oriente il caffè si compra camminando per strada, come da noi le castagne. E per strada puoi commissionare anche vasi e stoviglie: vengono modellati e cotti lì sul posto. Le dita dei vasai sono abili, e il fuoco azzurro è vivace. Le stoviglie sono ancora calde e quasi morbide quando il cliente le porta via.

Il popolo vive isolato in singole tribù. La vendetta di sangue è una consuetudine naturale nel paese, ad eccezione di quel terzo della popolazione che è diventato cattolico da circa duecento anni. In tutto il resto gli albanesi cattolici non sono diversi da quelli musulmani. Tutti gli albanesi sono armati. Tutti, eccetto coloro che vivono in città, studenti e intellettuali – ce ne sono pochi – e quelli che sono stati in America – ce ne sono molti – indossano il costume tradizionale: flanella bianca, ampi calzoni, cintura rossa o blu, pistola e una massiccia catena intorno al collo. La popolazione della campagna vive in case e in baracche situate in mezzo ai campi. Autentici primitivi, non hanno da temere attacchi aerei.

Gli albanesi si chiamano skipetari. La loro lingua è di origine sconosciuta. Non ha alcuna somiglianza con nessuna lingua europea. Ad ogni modo dovrebbe essere una delle lingue più antiche del mondo. Gli skipetari hanno dovuto affermarsi contro i turchi da più di quattrocento anni. Bellicosi e aggressivi, sono di fatto inclini a conquistare i confini limitrofi, come la Macedonia per esempio. Divenuti scaltri sotto la lunga schiavitù turca, mai domati, caparbi, questo popolo primitivo non potrà mai essere una facile preda di sconsiderati conquistatori. A differenza degli abissini, per esempio, gli albanesi sono diventati soldati nelle lunghe, dure scuole dei turchi – anche dei turchi moderni –, soldati in senso europeo. Durante la Prima guerra mondiale hanno conosciuto le truppe austro-ungariche. Nell'esercito albanese servono non pochi ex ufficiali austriaci. L'«esercito»! È arduo indurre pastori e contadini a indossare stivali. Preferiscono esercitarsi a piedi scalzi, così come sono abituati ad arrampicarsi sulle loro montagne. È anche difficile insegnare loro una «disciplina militare», così com'è intesa in senso occidentale. Ma anche se non sono «soldati», nel senso di un paese civilizzato, guerrieri lo sono di certo, e in un senso molto meno primitivo, ad esempio, degli abissini.

Qui Mussolini si inganna. La sua semplicità dittatoriale e l'evidente inferiorità dei suoi soldati potrà avere effetti sorprendenti su popoli africani soltanto primitivi. Ma l'essenza dei popoli balcanici, cioè il primitivo complicato, non lo conosce, il babbeo di ferro.

Il re Achmed Zogu è stato, durante la Grande Guerra, ufficiale presso l'esercito austro-ungarico. Con un'abilità quasi inquietante, ha messo Belgrado e Roma l'una contro l'altra e ha cancellato nel Paese ogni ricordo del suo predecessore Fan Noli. È certamente un albanese musulmano. Ma in fondo è un tenente viennese. Quando mi ricevette – era il 1927*, e si parlava di una guerra tra Jugoslavia e Italia – era ancora Presidente della Repubblica albanese e prossimo all'incoronazione. Egli negò di dover diventare re. Quando gli domandai se fosse vero che stava per essere incoronato, mi disse: «Cosa le salta in mente! Io incoronato? A che scopo?». Un attimo di silenzio, poi: «Dopo si può smentire tutto!» – in dialetto austriaco. È proprio un tenente viennese.

Il paese è di una tristezza bella e desolata. A dispetto dei civilizzati ordini di Achmed Zogu, le donne se ne vanno ancora in giro con il velo. Solo quando vanno a Tirana se lo levano. I canti primitivi dei pastori che, imbracciato il fucile, sorvegliano i loro animali, sono bellicosi e malinconici al tempo stesso. Da nessun'altra parte la morte è, come in questo paese, tanto vicina alla vita.

9 aprile 1939

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