Cultura e Spettacoli

Agamben, ecco come nasce il fuoco dell'arte

Agamben, ecco come nasce il fuoco dell'arte

Un pomeriggio di cinque anni fa, a Roma, in via delle Coppelle, incontrai Goffredo Fofi, vecchia conoscenza, in compagnia di un signore. Era Giorgio Agamben. Tra noi ci fu una veloce stretta di mano, e questo è stato (per adesso) l'unico incontro tra me e il mio filosofo preferito.

La ragione della mia preferenza sta nella forma stessa dei suoi testi, nei quali il centro non è mai costituito da una tesi da dimostrare (che esiste ma sempre in forma di suggerimento, di spunto) ma piuttosto da una progressiva approssimazione al cuore della domanda, dell'interrogativo di partenza che sovente non è quello vero. E il cuore della domanda non è mai un contenuto, bensì una specie di «centro vuoto», che precede la formula delle domande e il loro argomento (altrimenti la domanda è strumentale, retorica). Questo «centro vuoto» siamo noi stessi - lo diceva già Novalis: ''uomo è una domanda.

Ho letto con grande piacere l'ultima fatica di Agamben, Il fuoco e il racconto (nottetempo, pagg. 150, euro 14): si compone di dieci brevi e fulminanti saggi tutti legati, in un modo o nell'altro, al tema della creazione e della creatività. Il primo, forse il più bello, è quello che dà il titolo al libro e tocca il cuore dell'esperienza del raccontare, che è fatta di due elementi indispensabili e incompatibili: il «fuoco» del mistero (senza il quale il racconto è bassa aneddotica) e la «storia», che consiste essenzialmente (e drammaticamente) nella dissipazione di quel fuoco. Tra i due lembi del dilemma, nessuna sintesi. Piuttosto, un tremore, che prende, per dirla con Dante, «chi più sa». L'artista infatti «a l'abito de l'arte ha man che trema», perché conosce l'intima precarietà del proprio fare («precario», come ricorda Agamben, indica qualcosa che si ottiene solo pregando).

Ma la lettura del libro è piena di sorprese. Come nel saggio sulle evangeliche Parabole del Regno, dove l'esperienza della lingua viene condotta alla sua essenzialità antropologica, in sorprendente analogia con alcuni importanti indirizzi della neuroscienze. O come nel saggio «Che cos'è l'atto di creazione?», dove una lettura attenta e originale dei concetti aristotelici di «potenza» e «atto» conduce il filosofo a geniali osservazioni su ciò che nell'atto creativo (artistico o letterario) deve rimanere non-attuato affinché la creazione si compia, tanto che «chi manca di gusto non riesce ad astenersi da qualcosa, la mancanza di gusto è sempre un non poter non fare».

Nel saggio più politico (e insieme più poetico) del libro, «In nome di che?», Agamben tocca poi un nodo centrale della nostra civiltà. Prendendo le mosse da un accorato appello alla giustizia comparso nel mondo islamico, e che comincia In nome di Dio clemente e misericordioso , il filosofo si chiede in nome di cosa parli la nostra civiltà tecnologica. Ci sono i tecnici, appunto, e gli esperti, che parlano in nome della loro disciplina senza tuttavia poter uscire dal suo ambito, così che «noi non crediamo, non possiamo credere nelle ragioni dei tecnici e degli esperti», poiché non è di risposte parziali che andiamo in cerca. Ma allora, dove trovare questo tipo di risposte in un mondo che sembra averle negate fin nei suoi presupposti culturali?

Una risposta Agamben la dà, soprendente. Ma, anche qui, è meglio lasciare la sorpresa al lettore. In tutti i saggi qui raccolti, del resto, colpisce la chiarezza del pensiero sull'uomo (domanda tabù da almeno due secoli) che Agamben conduce, senza evitare nessun rischio.

Forse perché il rischio è la condizione essenziale di un essere che non ha in sé stesso il proprio centro, bensì in qualcos'altro (Altro), ciò che anche noi chiamammo Dio, e la cui perdita costituisce il bene più prezioso che abbiamo, il dolore da non dissipare, da cui dipende ogni nostra residua capacità di raccontare il vero.

Commenti