Cultura e Spettacoli

Agili, comodi e per nuovi bibliofili

diIsola d'Elba, 1° luglio 1544

Il giovane Cristiano d'Hercole faceva scorrere lo sguardo sul tratto di mare che lambiva la mezzaluna di spiaggia compresa tra il golfo di Ferraio e la punta rocciosa di Capo Bianco. La calura del tardo mattino pareva accentuare il senso di attesa che gli ribolliva nel sangue, anche se lui si ostinava a nasconderlo, quasi a combatterlo, mentre sfidava con i suoi occhi neri il bagliore del sole. Sotto il cielo terso sembrava non muoversi nulla, eccetto le onde con il loro infrangersi sulla costa delimitata da una folta macchia. Eppure sentiva qualcosa agitarsi nelle viscere, un presagio, come se fiutasse nell'aria l'incombere di un evento terribile. Che non tardò a manifestarsi.
Un boato rumoreggiò da levante come l'appressarsi di una tempesta. Non era un tuono, ma un colpo di cannone. Cristiano si voltò d'istinto in quella direzione, cercando di immaginare cosa accadesse al di là dei promontori ammantati di verde, lungo le coste nord-orientali dell'isola, ma riuscì a udire soltanto altre cannonate accompagnate dal rintocco di allarme dei campanili. La torre della spiaggia di Rio si stava difendendo da un attacco proveniente dal mare.
Non gli restò che tenere a freno l'inquietudine e puntare gli occhi su Capo Bianco, finché non scorse la prua di una galea fare capolino oltre le candide pareti rocciose e virare verso l'insenatura di Ferraio. Era di grandi dimensioni, con un enorme rostro, cinque cannoni montati sul tamburo di prora e due alberi con vele latine. Superò le sporgenze rocciose facendo mostra del suo profilo, almeno centosessanta piedi per oltre quaranta banchi di voga, la fiancata sottile e affilata come una scimitarra, la poppa rialzata in luogo della carrozza. Fendeva l'acqua con un'eleganza letale, resa ancor più temibile dalle insegne rosso-gialle sul pennone. La mezzaluna dell'impero ottomano.
«La galea bastarda del Barbarossa!», esclamò uno dei due soldati alle spalle di Cristiano, pronunciando quel nome come se si riferisse al diavolo in persona.
E il ragazzo non poteva dargli torto. Khayr al-Din detto Barbarossa, al comando della flotta turca, era davvero malvagio quanto il re dell'inferno, e se gli si fosse presentata l'occasione non avrebbe senz'altro esitato a fargli visita per spodestarlo. Le terre dell'Elba portavano i segni delle sue scorrerie, cicatrici che si rimarginavano soltanto per riaprirsi di nuovo, ancora e ancora, con sempre maggior dolore e spargimenti di sangue. Cristiano non doveva certo sforzarsi per scorgere i segni di quella distruzione, ne aveva alcuni di fronte agli occhi. Dalla sua posizione elevata, un rilievo che dominava la costa, distingueva con chiarezza le rovine di abitati vicini. Tuttavia l'insenatura non era certo sguarnita di difese. Vi stazionavano tre galee spagnole affidate all'Elba dall'imperatore Carlo V per far fronte a nuovi attacchi. Erano anche presenti contingenti di terra appostati dietro fossati e palizzate, armati di picche, archibugi e bombarde, sebbene il grosso delle milizie spagnole trovasse quartiere dall'altra parte del mare, presso la città di Piombino, insieme alle truppe del duca di Firenze.
Non appena la galea bastarda varcò lo stretto del golfo si scatenò l'inferno. I primi ad attaccare furono i soldati di terra, mettendo mano alle bombarde per dare tempo alle navi spagnole di organizzare l'offensiva. L'ammiraglia ottomana virò di babordo, offrendo la prua alla costa, mentre la flotta al suo seguito irrompeva a voga arrancata in quel tratto di mare. Cristiano perse il conto dopo il decimo legno che vide entrare nel golfo. Era un'armata impressionante, per lo più galee affiancate da agili fuste, ma a stupirlo fu la presenza, seppure appartata, di navi alleate francesi. \
Una mano si posò sulla sua spalla, distogliendolo dal macabro spettacolo.
«Vostra signoria, non possiamo restare oltre», gli disse un soldato. Aveva il volto sudato, gli occhi dilatati dall'allarme e dallo spavento. «L'ordine è di tenervi al sicuro, ed entro breve questa postazione non sarà più tale».
«Ancora un attimo», insistette il giovane, eccitato dalla foga dello scontro.
«Fossi in voi romperei gli indugi», intervenne il secondo soldato, facendogli notare cosa stava accadendo proprio sotto di loro. Un grappolo di scialuppe corsare si era staccato dalle galee e aveva già raggiunto la spiaggia, sbarcando a riva contingenti di giannizzeri e soldati a cavallo. Non appena misero piede a terra, si gettarono all'attacco contro quanto restava delle formazioni spagnole, dilagando verso l'entroterra come un incontenibile formicaio.
Di fronte all'imminente minaccia, Cristiano acconsentì ad andarsene. Non prima, però, di aver lanciato un ultimo sguardo verso la galea spagnola vittima dell'arrembaggio. I corsari avevano ormai avuto la meglio, ciò nondimeno si accanivano con ferocia contro i pochi nemici rimasti. \
Il ragazzo non esitò oltre e si avviò con i due soldati verso un vicino castagneto, dov'erano assicurati tre cavalli, e dopo essere salito in sella a un baio si lanciò al galoppo lungo un sentiero che serpeggiava tra gli alberi. «Alla rocca del Volterraio», annunciò.
E mentre si allontanava a spron battuto con la scorta al seguito, non poté non interrogarsi sulla causa che doveva aver scatenato tutta quella violenza. Il Barbarossa non aveva sfidato l'Elba per una semplice razzia. Era venuto proprio per lui, come già aveva tentato di fare l'anno precedente. E questa volta - ne era certo - non se ne sarebbe andato a mani vuote. L'avrebbe portato via con sé.


Ma il rovello di Cristiano era un altro, una domanda che lo tormentava da mesi senza trovare risposta. Cosa voleva da lui il grand'ammiraglio della flotta ottomana?

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