Cultura e Spettacoli

Antipatici? No, vittime del cattocomunismo

Il Triveneto è considerato in modo strumentale una terra di sfruttamento selvaggio, da deprecare o compatire. E quando accade un fatto di cronaca nera, la sociologia spicciola dà fiato alle trombe

Antipatici? No, vittime del cattocomunismo

Terza puntata sulla «questione Nordest». Dopo l’intervista di Stefano Lorenzetto a Gian Mario Villalta (autore del saggio Padroni a casa nostra. Perché a Nordest siamo tutti antipatici, edito da Mondadori) e l’intervista all’editore Cesare De Michelis, patron della Marsilio, oggi proseguiamo con un intervento dello scrittore vicentino Giancarlo Marinelli (finalista al Premio Campiello nel 2006 con Ti lascio il meglio di me). Domani la quarta e ultima puntata della serie sull’«antipatia» del Nordest.  

di Giancarlo Marinelli

Sergio Perosa, nei suoi illuminanti saggi di letteratura inglese, raccolti nel recente L’albero della cuccagna, volume secondo, ci ricorda il grido fiero di Romeo, innamorato della sua città, forse più ancora che di Giulietta: «Fuor di Verona non c’è mondo,/ ma purgatorio, tortura, inferno». Subito dopo Perosa sottolinea il fatto che Shakespeare «non era mai stato in Italia, ma mostra conoscenze sorprendenti delle città venete che raccolse negli ambienti londinesi più disparati... fra i marinai, gli esuli, nelle credenze popolari. Perché la Serenissima e il suo territorio erano visti al suo tempo come la culla della civiltà e delle libertà politico religiose, come il giardino d’Italia, che appariva a sua volta il giardino d’Europa...».

Possibile che, oggi, il mondo civile abbia forzatamente traslocato fuor di Verona, lasciando l’Arena e Piazza Bra in mano a un manipolo di ceffi e di bestie immonde? Possibile che la culla della civiltà si sia tramutata in un tavolaccio delle torture, dove vengono distesi ignari martiri extracomunitari, sotto le grinfie del capo dei demoni, Flavio Tosi? Possibile che il giardino di Italia e di Europa abbia ceduto il passo al putrido fango di una cloaca xenofoba e leghista, che nega la libertà di pensiero e di culto, nel momento stesso in cui mette, in ordine di apparizione, i musulmani solo prima dei maiali («in ordine di apparizione», perché nella scena di un ipotetico kolossal leghista, L’invasione degli UltraSuini, magari diretto da Renzo Martinelli, i musulmani arriverebbero in scena prima, mentre fuggono terrorizzati dalle zanne cornute di scrofe impure e spaventose, che li incalzano appena dietro).

Un anno e mezzo fa, proprio dalla prima pagina de Il Giornale, attraverso una lettera al mio spirito guida, a colui che è di fatto il più grande scrittore del Novecento italiano ed europeo, Giuseppe Berto, scrissi che esisteva una vera e propria «questione settentrionale»; e, più specificatamente, una più drammatica e feroce «questione veneta»: lamentavo e lamento (come del resto prima, e molto più autorevolmente di me, ha fatto Giovanni Comisso) di un preciso piano politico-culturale, che dal dopoguerra in poi mirava a soffocare la tradizione e le energie intellettuali del Veneto e del cosiddetto Nordest; in una logica puramente clerico-marxista, era necessario individuare il territorio suddetto come un laboratorio permanente di industrializzazione selvaggia, di campagne e fattorie incendiate per lasciar posto «al capannone fai di te», di imprenditori arricchiti pronti a svendere la mitica identità contadina in nome di un Dio denaro che tutto sporca e asservisce. All’interno di questa allegro progetto (che ha coinvolto in egual misura Dc e Pci), l’atto creativo meritevole di riconoscimento nazionale poteva essere soltanto uno; quello della ribellione, della denuncia indignata; non c’era spazio per il romanzo «normale» (Anonimo Veneziano di Berto venne considerato un patetico tentativo di scopiazzare il ben più gettonato Love Story), né per l’arte universale (Il Male Oscuro, per alcuni critici della Capitale, era un pericoloso romanzo di introspezione svenevolmente borghese), per confinare ogni tentativo di raccontare l’Italia - di più, il mondo intero - attraverso il paesaggio e la storia veneta, dentro gli schemi algidi di un inoffensivo, folcloristico regionalismo o localismo (sia detto una volta per tutte: le mirabili, sublimi pagine di Ferdinando Camon non sono di uno scrittore veneto o padovano. Ma di uno scrittore italiano, studiato e tradotto in tutto il mondo. Così come Un altare per la madre non è un capolavoro sulla perduta civiltà contadina veneta. Ma sulla perduta civiltà contadina. Punto e basta).
La mia analisi ha suscitato disappunto, clamore, persino un cenno di irritata derisione. Da più parti (il mio critico più severo è stato Pierluigi Battista) si è detto e scritto che non esiste, né è mai esistito alcun piano preordinato teso a dare della mia terra un’immagine siffatta; peccato che, neppure un mese dopo, i miei affettuosi detrattori siano stati fagocitati da un silenzio sgomentante, seppelliti dalla valanga di voti presi dalla Lega Nord.

Siamo davvero convinti che lo smisurato consenso della Lega risieda unicamente nella protesta dei padani che vogliono pagare meno tasse, scannare tutti gli extracomunitari, avere un loro ministro alla Guerra contro Roma Ladrona? Quanto è cieco il nostro sguardo se non ci permette di vedere che, dietro al consenso raccolto da Bossi e compagni, c’è prima di tutto una rivendicazione (sovente inaccettabile nei modi) di una identità storico culturale, troppo spesso violata, negata, sbeffeggiata?

Alcuni esempi, recenti, piccoli piccoli.

Verona. Un branco di assassini con la testa e il cervello rapato pestano a morte un loro coetaneo. I talk show, i sociologi vari (che peraltro portano una certa «rogna»...) disegnano subito il quadro, pongono la fatidica domanda: cosa possiamo fare per fermare il dilagante fenomeno del razzismo tra i giovani del Veneto e di Verona? Non sarà che certe affermazioni del sindaco leghista siano un humus fin troppo fertile per certi balordi?

Un passo indietro. Novi Ligure. Due sballati fidanzatini, Erika e Omar, imbottiscono di pugnalate la madre e il fratello piccolo di lei. I talk show, i sociologi vari (che, nel frangente, portano una rogna più «globalizzata») pongono la fatidica domanda: cosa possiamo fare per fermare il dilagante fenomeno della droga tra i ragazzi d’Italia? Come possiamo insegnare i valori positivi alla nuova generazione occidentale?

Nessuno che abbia messo sul banco degli imputati l’identità piemontese; nessuno che se la sia presa con i modelli politici di quella regione o di quel comune; nessuno che abbia tirato in ballo «il traumatico sradicamento delle campagne» in favore di un consumismo becero...

La lista potrebbe continuare all’infinito e sarebbe utile a spiegare il caricaturale comportamento assunto dal critico romano che rifiuta di partecipare alla rassegna letteraria diretta dallo scrittore Villalta, con una argomentata motivazione («Dalle vostre parti tira una brutta aria...»). Senza però tralasciare, in quella stessa lista, un mea culpa grande come Piazza San Marco che questa terra deve prima o poi avere il coraggio di recitare.

Consiglio a tutti di fare un esperimento: portate davanti alla tv un ragazzino di tredici anni, già avvezzo a reality in salsa romanesca o a fiction in lingua vesuviana, e fategli vedere le immagini di un telegiornale locale. Basta poco: un’intervista fatta ad un passante che risponde alle domande su qualsivoglia argomento in dialetto o con smaccato accento vicentino, padovano, rodigino. Poi rivolgete questa domanda al ragazzino: «Che impressione hai avuto?». Vi risponderà pressappoco così: «Che brutto sentir parlare in dialetto... che ridicolo... che buffa vergogna sentire alla tv i miei concittadini parlare con l’accento veneto».

La verità è che noi per primi abbiamo, da tempo, chinato la testa: non siamo capaci di fare squadra, e quando la facciamo il nostro intento è di farla contro qualcuno (abbiamo permesso, anzi, favorito, il «colonialismo clientelare, romanocentrico» dei nostri musei, delle nostre istituzioni culturali, dei nostri giornali); non abbiamo ancora imparato a valorizzare ciò che siamo e ciò che abbiamo (a Parigi esistono teatri che celebrano ogni giorno Molière, noi neppure una sala parrocchiale che, a Venezia, offra un allestimento, dodici mesi l’anno, dedicato a Carlo Goldoni); non riusciamo a promuoverci fuori dai confini regionali con la (pre)potenza di altri (a quando un servizio del Tg1 sul Teatro Toniolo di Mestre, che è il primo palcoscenico per presenze e abbonamenti dell’Italia intera, tenendo conto del rapporto biglietti venduti e popolazione residente?); proteggiamo la bellezza dei luoghi ed in verità, vigliaccamente, ne castriamo potenzialità ed aspirazioni (abito a pochi chilometri da Arquà Petrarca che è sommamente più incantevole di Spoleto; eppure là c’è il Festival dei due Mondi, qui invece lo zero assoluto, se non la dimora del Poeta visitata da una pattuglia di tedeschi stanchi delle Terme di Abano).

I veneti sono dunque antipatici, perché così li hanno, di proposito, fatti apparire. E perché così (non proprio di proposito...) si ostinano ad essere.

Forse ha ragione John Ruskin che, ne Le pietre di Venezia, scrive: «Questo popolo per mille anni lottò coraggiosamente per la vita, poi per altri trecento anni non fece che invitare la morte».

Nati contadini, cresciuti clerico-fascisti (molto clerico poco fascisti), invecchiati cattocomunisti (molto catto poco comunisti), morti leghisti. Sì, in fondo, è proprio così. Attaccateci tutte le «antipatiche» etichette che volete. Tanto, da un tempo che ormai non si conta, siamo abituati: noi siamo gente che porta dentro di sé «una particella di quella finalità irrimediabile», per dirla sempre con Giuseppe Berto. Abbiamo il senso della fine.

Per questo ogni giudizio, ogni verbo - siano essi espressi per celebraci o per affondarci - fanno parte di un concerto che già abbiamo sentito.

Un concerto antico che dice la rassegnata disperazione per la morte di un uomo, o forse di una città, di una terra intera, e di tutto ciò che è già vissuto abbastanza.

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