Cultura e Spettacoli

A. B. Guthrie trasformò i cowboy in un mito. Anche per la cultura alta

I romanzi con la colt in mano sono tornati di moda pure in Italia. Ma "Il grande cielo", del 1947, è qualcosa di più: un capolavoro universale

Cowboy nelle Badlands (Thomas Eakins)
Cowboy nelle Badlands (Thomas Eakins)

Questo 2014 sembra l'anno della «Conquista del West»: non c'è editore italiano che non abbia proposto un romanzo «western». Solo per citare le ultime uscite: dal Revenant di Michael Punke (una prosa mal riuscita del peggior Jack London, per Einaudi) al Ranger del Texas di Zane Grey (la Liala del West, con una scrittura tra le peggiori della «frontiera», un libro del 1930 appena riproposto da Meridiano Zero).

Imbattendosi nella nuova edizione di un altro romanzo sul West, Il grande cielo di A.B. Guthrie, dopo poche pagine si comprende immediatamente che è un capolavoro capace di trascendere ogni frontiera. Pubblicato in Italia nel 1950 da Mondadori, poi riedito da Rizzoli nel 1978, era caduto nel dimenticatoio: ora grazie all'americanista e traduttore Nicola Manuppelli rivive in una nuova edizione appena uscita da Mattioli 1885 (pagg. 446, euro 16,90). Perché Il grande cielo anche negli Stati Uniti è considerato un capolavoro: un'opera immensa che non deve e non ha bisogno di essere catalogata. Uscito nel 1947, primo di sei volumi (il secondo fece vincere a Guthrie il Premio Pulitzer per la narrativa), è una grandiosa metafora sull'uomo che distrugge sempre ciò che ama. Guthrie è stato il primo vero contestatore del «sogno americano», un autentico precursore della «beat generation» e dall'altra parte un difensore estremo della propria «privacy», che tanto ha contribuito ad alimentare i miti di Salinger e Pynchon. Si concedeva pochissimo alle interviste rispondendo sempre ai giornalisti o a chi viaggiava per incontrarlo e fare una foto con lui: «Ho scritto un libro, sono mica una cartolina o un souvenir».

Con Il grande cielo ha scritto il romanzo che ha portato il genere western nel mondo dell'alta letteratura perché è stato il primo a introdurre il realismo in storie di frontiera. Esattamente come ha fatto Dashiell Hammett con la «crime story». Potrebbe essere definito una specie di “Odissea” americana in cui avviene di tutto: si viaggia in barca, a cavallo, a piedi e poi ci sono l'amore, l'odio e soprattutto l'amicizia (il sentimento più presente nella letteratura americana). A esempio l'amicizia tra Boone, il protagonista del libro, e Jim, che ricorda una sorta di moderno Huckleberry Finn, o la nostalgia, che domina i cuori dei personaggi: cacciatori consci di esplorare un mondo immacolato che adorano, ma che distruggono nel momento stesso in cui lo scoprono. Guthrie era un animalista convinto, diceva che «chi ama guardare non può distruggere ciò che guarda». Ecco perché ci racconta l'ultimo urlo della wilderness prima che diventi un sogno lontano, un paradiso perduto. E sa descrivere, in modo unico, la crudezza delle uccisioni e degli squartamenti di animali. E quindi ecco un altro sentimento: l'orrore.

Poi c'è il viaggio, impersonato da Boone che si mette in strada, dopo avere litigato col padre. Si mette in strada senza niente a parte i sogni e, poco dopo, l'amore per Teal Eye. Ed è questo a fare de Il grande cielo il primo vero libro on the road americano, almeno in senso moderno, dove il percorso è visto come una crescita, una formazione e la strada stessa come un sentimento. Non è un caso, quindi, che il personaggio di Boone verrà preso come modello dalla generazione della controcultura. Come si può leggere nella postfazione di Nicola Manuppelli, molti giovani scrittori e studenti busseranno alla porta di Guthrie. Tra di loro ci sarà anche Ken Kesey, l'autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo e Richard Ford (il primo scrittore americano destinato a vincere sia il PEN Faulkner per la narrativa che il Premio Pulitzer) che si rivolgerà sempre rispettosamente nei confronti di Guthrie chiamandolo «Sir». Anche se ormai Guthrie -che oltre a geniale artista è stato anche autore di Hollywood di successo tanto che la sua sceneggiatura di Shane arrivò finalista agli Oscar- si era ridotto al fantasma di se stesso: da genio della letteratura a esiliato nella piccola cittadina di Missoula, nel Montana, dove lo conoscevano e chiamavano soltanto «il famoso ubriacone». Perché, come scrive Guthrie, «invecchiando, cominciava a sentire le cose in modo diverso. Gli piaceva ancora vedere le colline e percorrere i fiumi, ma la metà del piacere era nel ricordo. Dopo che c'eri stato, un luogo non era più soltanto un posto qualsiasi. Si aggiungevano il tempo che ci avevi passato, le cose che avevi pensato, le persone con cui eri stato. C'era un tempo iniziale e il posto in sé, e poi c'erano lo stesso luogo, il tempo e l'uomo che eri stato, tutti mescolati insieme, uno con l'altro».

Tutto questo ha a che fare con un sentimento che cerchiamo sempre di rimuovere: la nostalgia, vista sempre come anticamera del dolore. Eppure «pensare in termini di idee distrugge la possibilità di pensare in termini di emozioni», scrive Guthrie. Ed è forse questa la grandezza vera di questo romanzo. Il presentimento che l'unica soluzione sia tornare a leggere le storie. Dentro noi stessi e, magari, sotto il grande cielo.

Twitter: @gianpaoloserino

Commenti