Cultura e Spettacoli

Baudrillard e il funerale dell'arte contemporanea

Negli anni '90 il filosofo e sociologo francese anticipò le critiche attuali di Bonami alla spettacolarizzazione del "nonsense". Seppellendo qualsiasi speranza estetica...

Baudrillard e il funerale dell'arte contemporanea

«L'arte contemporanea ha finito il suo ciclo e dovrà ricominciare da qualche parte, ma non si sa da dove». A dirlo non è un difensore del classico né un apocalittico convinto che il male assoluto risieda nel presente, bensì Francesco Bonami, il più celebre tra i curatori italiani che dopo aver diretto biennali in tutto il mondo e scritto acuti pamphlet, pare arrendersi all'evidenza che davvero l'arte di oggi sia portatrice di nonsense e che stia miracolosamente in piedi perché un ristretto giro di addetti ai lavori ha deciso così.
Bonami, che sta tentando di spiegare l'arte in tv a un pubblico almeno sulla carta più vasto di quello dei frequentatori di musei e gallerie, è stato intervistato da Pif, alias Pier Francesco Diliberto, nel programma Il testimone su MTV, proprio per andare a fondo sul mistero di quest'arte così astrusa e respingente, il cui mito parte dal 1917 con il primo ready made di Marcel Duchamp, prosegue all'inizio degli anni '60 con la Merda d'artista di Piero Manzoni, fino ad arrivare, nel 1993, all'esposizione di una scatola da scarpe vuota alla Biennale di Venezia, firmata Gabriel Orozco. «Lo fece - spiega Bonami - perché probabilmente non aveva niente da dire».

Certo, l'approccio più ordinario nei confronti del contemporaneo consiste nel prendere le distanze da ciò che non si capisce, però l'accusa di prevenzione non sembra sufficiente perché oggi più che mai l'arte si sottrae al giudizio della logica e neppure gli esperti sono in grado di comprendere il perché delle cose. E non serve continuare a parlare di provocazione, quando sono i tic comportamentali a prevalere, il cliché dell'artista ispirato che non deve rendere conto a nessuno e non si interroga sulle conseguenze del suo fare. Lo afferma candidamente l'inglese Martin Creed, già vincitore del Turner Prize, che in una stanza vuota accendeva e spegneva la luce a intermittenza: «ho fatto questo perché non avevo nessun'idea».
Se per un verso l'arte attrae i media per l'indubbia capacità di costruire fenomeni e contesti sociali specchio della nuova upper class globale, si riscontra altresì il fallimento di una formula ormai quasi centenaria che ha perso lo smalto corrosivo di un tempo e ora, al massimo, diverte ma il più delle volte fa incazzare. Di fronte alla richiesta di spiegazioni, direttori di museo e artisti si nascondono dietro un sorrisino imbarazzato o, peggio, nella totale afasia. Non succedeva certo né con Duchamp, Warhol e neppure Koons, attenti a dimostrare la validità del loro pensiero: i presunti eredi si rivelano pallidi simulacri comportamentali e l'opera, privata di qualsiasi valore intrinseco, ha terminato così la sua corsa.
Viene a proposito la riedizione di alcuni scritti del filosofo francese Jean Baudrillard (scomparso nel 2007) nell'agile volumetto Il complotto dell'arte (SE, pagg. 84, euro 12) per leggere il fenomeno in tutta la sua evidenza: questa volta la morte dell'arte è conclamata e non più rinviabile. Se si prescinde dall'ostilità di qualche passaggio linguistico, a Baudrillard si deve riconoscere una lucida preveggenza. Nel 1994 parlava di «generale malinconia della sfera artistica», in cui «siamo destinati alla retrospettiva infinita di ciò che ci ha preceduti». Se Bonami oggi sostiene che bisogna proteggersi dall'arte divertente, dall'artista idiota, Baudrillard metteva in guardia sul rischio di «ironia fossile» per un'arte caricatura di se stessa. Quando un sistema diventa parodia, anche l'effetto eversivo si traduce in banalità a effetto pubblicitario. L'arte del XXI secolo non è più iconoclasta perché non distrugge immagini come avveniva fino alla pittura astratta, ma anzi fabbrica «una profusione di immagini in cui non c'è niente da vedere».

Prima di andarsene, Baudrillard fece appena in tempo ad accorgersi del crescente successo dell'artista simbolo della nullità contemporanea, quel Tino Sehgal che non concede interviste, non permette di filmare o fotografare le sue performance dove non accade niente di rilevante, tranne il momento in cui incassa lauti assegni da privati collezionisti invasati e musei pubblici irresponsabili. Quest'ultima generazione di artisti ha perfettamente compreso l'essenza pubblicitaria del mondo, applica una messinscena e persino il cinismo di Warhol appare datato e ingenuo. Esiste infatti una differenza tra i profeti del nulla e la nullità eretta a godimento estetico perverso: «la maggior parte dell'arte contemporanea si dedica proprio a questo: ad appropriarsi della banalità, degli scarti, della mediocrità eleggendoli a valore e a ideologia».
Se ne potrà mai uscire? Non certo continuando a rivolgere lo sguardo al passato. Baudrillard affermava di non provare nostalgia per vecchi valori estetici: «l'arte può avere ancora un grande potere di illusione. Ma la grande illusione estetica è diventata una disillusione... e dopo un po' gira a vuoto». Tocca allora arrendersi all'evidenza che non sia più possibile applicare il criterio del giudizio critico sul valore dell'opera ma solo quello della spartizione amichevole e conviviale.

Tutti insieme, tutti vestiti di nero, al funerale dell'arte contemporanea.

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