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Le belle favole della destra "nuova". E le loro brutte fini

Il romanzo "Nessuna croce manca" di Angelo Mellone racconta speranze e disillusioni dei giovani militanti che hanno fondato An. E poi si sono "persi"

Le belle favole della destra "nuova". E le loro brutte fini

In una Taranto fine anni Ottanta, tutta ruggine e ossa, quattro liceali scoprono la politica a destra. C'è ancora il Movimento sociale italiano, un fuoco fatuo, più che un partito, ma da ragazzi, si sa, non si guarda troppo per il sottile e spesso fare politica è più una febbre a quaranta che un ragionamento: di solito ci pensa il tempo a curarla, eccezion fatta per i malati di professione. Del resto, il Msi dell'epoca è a basso tasso di carrierismo: conta poco o nulla nel panorama nazionale, è tenuto ai margini della cosiddetta società civile, si crogiola in un neo o post fascismo velleitario e a suo modo romantico, una nostalgia rimasticata, insomma, che sembra preservare i suoi adepti da ogni lusinga del potere. Tutt'al più, per i professionisti di cui sopra, è ancora possibile qualche interstizio della politica politicante, dalle circoscrizioni ai comuni, dalle province alle regioni, al parlamento nazionale, la piccola greppia della partitocrazia dove alla fine c'è posto per tutti, impresentabili compresi.

I quattro hanno nomi e soprannomi, Claudio, Dindo, Gorgo, Chiodo, qualcuno è amico dall'infanzia, uno, Gorgo, è di sesso femminile e a sedici anni è già rimasta incinta, sesso non protetto e per di più in trasferta, un ventenne “camerata” musicista, inaffidabile in entrambi i ruoli. Dindo, che di lei è segretamente innamorato, non l'ha mandata giù, ma intanto è arrivato il 1989, è caduto il Muro di Berlino, la Prima repubblica ha preso a scricchiolare, gli antichi steccati ideologici sembrano non tenere più e quel partito dove stavano consumando l'adolescenza sembra ora promettere loro un'eccitante giovinezza. Calcisticamente parlando, è come se dalla serie D, squadra e tifosi si trovassero, senza aver fatto nulla, catapultati in serie A... C'è euforia, si indossano nuove maglie, è previsto uno stadio ad hoc e persino l'acquisto di qualche straniero. Intanto, e soprattutto, però, bisognerebbe imparare a giocare.

Nessuna croce manca , di Angelo Mellone (Baldini&Castoldi editore, 320 pagine, 16 euro), è una sorta di educazione sentimentale e politica di una generazione dove la forma romanzesca non nasconde la componente autobiografica. La descrizione fisica di uno dei protagonisti, Dindo, richiama quella del suo autore, così come il cognome, Morrone, è una variante di quello originale. Al netto di giudizi, anche il percorso intellettuale è simile: responsabile dei Progetti innovativi di Rai Uno, docente alla Luiss, autore di saggi e di opere teatrali, a vent'anni Mellone era come il suo Morrone, precario e dottorando, e vent'anni dopo l'uno può rispecchiarsi nel successo dell'altro e probabilmente anche nella medesima disillusione.

Romanzo di una sconfitta, Nessuna croce manca è interessante per quello che lascia filtrare. Lasciamo da parte la cornice sentimentale, amori, agnizioni, aborti eccetera, e lo stile narrativo. Il suo valore è altrove, fra le righe. Negli anni Novanta, i due più “politici” del gruppo, Claudio e Dindo, partecipano alla nuova stagione di Alleanza Nazionale da posizioni diverse: sostenitore il primo, che poi diverrà deputato, critico il secondo, che però si ritaglierà nel tempo un ruolo ben remunerato di intellettuale, per quanto “irregolare”, di area. In quelle scelte iniziali non c'è opportunismo, ma l'impressione è quella di una generale abbacinamento, dove se non altro il politico ortodosso è più lineare dell'intellettuale, come dire, riluttante... Le sue dichiarazioni di intenti, sono lodevoli, una destra moderna, al passo con i tempi, eccetera, ciò su cui però non ci si interroga è la curiosa eterogenesi dei fini (effe minuscola eppure maiuscola...) che ne scaturisce. Alleanza Nazionale nasce per liberarsi definitivamente dalla camicia di Nesso fascista che la imprigionava, e ci riesce talmente bene da buttare a mare oltre la camicia anche se stessa, caso unico di un partito che in poco più di un decennio si autodistrugge per incapacità a esistere. Nel libro c'è una bella immagine di Enzo Erra, uno che non ha mai messo il suo dio nella carriera, che a Fiuggi «impugna il microfono come una katana» per dire no alla fine del Msi, al suo annullamento nel mare magnum della mondializzazione e della liberal-democrazia. Non è che volesse quello vecchio, da cui oltretutto se n'era andato quarant'anni prima, ma si trattava di dargli una reale identità, non annegarlo nell'indistinto.

Certo, la disillusione corre per tutto il libro, una bella favola con una brutta fine, una speranza trasformatasi in catastrofe, senza che però nessuno capisca bene il perché. È colpa del tempo, sembra dire l'autore, la giovinezza che se ne va e ci rende di colpo reduci e infelici. L'impressione però è quella di una generazione che abbracciò il cambiamento senza veramente capire che cosa si dovesse cambiare, lo subì, per insipienza propria, per certi versi se ne approfittò, anche legittimamente, per poi scoprire di essere in fondo della stessa pasta di quelli che, quando era ancora nel ghetto degli appestati ideologici, considerava i suo irriducibili nemici. Il verme era nella mela, detto brutalmente: la conquista del potere, trasformata in potere che dà la conquista, pura e semplice, senza complicazioni di sorta, senza un motivo, un sentimento, un pensiero.

Il grado zero della politica, o il degrado, fate voi.

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