Cultura e Spettacoli

Berto, un talento immenso anche nell'autodistruggersi

Berto, un talento immenso anche nell'autodistruggersi

Rizzoli-Bur pubblica per la prima volta in un unico volume Tutti i racconti di Giuseppe Berto (pagg. 530, euro 13), e lo fa nel modo più umiliante per lo scrittore di Mogliano Veneto. Aggirarsi per questo libro dà la stessa sensazione di desolazione e di non senso che doveva prendere il cuore dello scrittore e dei suoi compagni in Texas alla vista della piatta prateria secca e pietrosa di Hareford, dov'erano stati imprigionati. Per l'autore de Il cielo è rosso e de Il male oscuro, non una nota a pie' di pagina, non una notizia sui singoli racconti, non uno straccio di data, non un'introduzione, quando per autori molto meno importanti si sprecano, inspiegabilmente, le pubblicazioni di lusso e le edizioni critiche.
In un volume in cui vengono riproposti testi mai precedentemente raccolti, colpisce questa assenza di cura, l'indifferenza editoriale nei riguardi della possibilità che un libro come questo offre per una rilettura complessiva di uno scrittore pieno di luci e ombre, di un talento straordinario in parte gettato via, del testimone di almeno due epoche, di cui una - il cosiddetto boom economico - zeppa di oscurità che anche la lama di luce di Pasolini non ha potuto rischiarare del tutto. È come se il posto di Berto nella nostra letteratura fosse già stato deciso: uno scrittore interessante, ma di seconda fascia. È il vizio di chi pretende di trasformare la cronaca in storia, di decidere fin d'ora quali sono i cento romanzi fondamentali, i cinquanta saggi imperdibili, i duecento film migliori, è insomma il vizio di chi vuol trasformare la cultura in un enorme, triste dovere, in una santa messa senza sacramenti e senza perdono.
Molti anni fa, giovanissimo, chiesi a Carlo Bo un parere su queste cose. La sua risposta fu: la storia. Era la storia a produrre la cronaca, non viceversa. E noi dal libro della Storia ci faremo guidare per parlare di questo libro, chiuso il quale l'impressione che resta è quella di un immenso talento narrativo autodistruttosi nel corso degli anni. Il confronto tra i primi racconti e gli ultimi è impietoso e testimonia di una perdita progressiva non solo della vena narrativa, ma anche della relativa, inscindibile tecnica, che da premesse e promesse felici si dissolse nel chiacchiericcio imbarazzato delle ultime prove narrative, nel vuoto d'ispirazione cui nemmeno il successo cinematografico (ricordate Anonimo veneziano con Musante e la Bolkan?) fornì un po' di respirazione artificiale.
Bisogna leggere il primo dei racconti di Berto, La colonna Feletti, del 1940 dove, ben prima della deportazione americana (Berto fu fatto prigioniero nel '43 in Africa), lo scrittore venticinquenne offre una prova delle proprie potenzialità narrative. Disonestamente, Wikipedia definisce il racconto «di scadente qualità». Al contrario, dedicato a un caso tragico realmente avvenuto durante la campagna in Etiopia, si rivela una miniera di indicazioni sulla formazione dello stile bertiano. Qui l'impianto sostanzialmente dannunziano risulta rinvigorito da una capacità visionaria fuori del comune, che nel buio alternato a crepuscolo in cui si svolge tutto il racconto riesce a dominare la complessità degli eventi restituendoli in un ritmo africano, rituale, come se la fine della disgraziata colonna Feletti - 150 soldati - avvenisse in una sorta di danza ipnotica. Nel 1940 Berto è fascista, sogna ancora l'Italia romana, loda l'eroismo dei soldati del Duce e forse per questo il suo racconto è definito «scadente» da chi non dovrebbe azzardare troppi giudizi estetici (non è questo il compito di Wikipedia).
Il contatto con la letteratura americana (Steinbeck soprattutto), che Berto lesse in lingua originale molto prima che l'onda di tsunami di quella narrativa invadesse (tradotta) le nostre sponde, completò la sua formazione letteraria. Senza negare del tutto una certa matrice dannunziana, Berto accolse non tanto lo stile americano, quanto la temperatura esistenziale che lo penetra, il sentimento dello scorrere del tempo, il nesso di questo con la parola che se ne fa carico, il senso del silenzio che fa corpo con il paesaggio. Insomma, Berto in America c'era stato davvero, non come gli americanofili di qualche anno dopo: era stato in America, e nella sua lingua. Esito di questa esperienza è il racconto più bello di Berto, uno dei più belli di tutta la nostra letteratura del Novecento: Il seme tra le spine, dove l'impossibile amore nato tra un giovane prigioniero ferito e una non più giovane infermiera americana segna i termini di una tragedia che noi non conosciamo più non perché non esista più, ma perché preferiamo far finta di dimenticarla. Non possiamo infatti dimenticare che i pregiudizi che ci dividono nascono dalla storia, e che nessuna buona disposizione li può sconfiggere se non si accetta la mediazione della storia.
La parte successiva della vita di Berto, quando, dopo la pubblicazione de Il cielo è rosso, comincia a fare la vita dello scrittore italiano (celebri le sue sortite polemiche), segna l'inizio di una parabola discendente che solo il suo talento poté rallentare. Il fatto è che a Berto cominciava a mancare il contatto con la sua grande maestra, la Storia. C'è chi legge il suo inaridimento come una conseguenza della depressione che lo avvolse, e di cui diede una drammatica testimonianza nel best-seller Il male oscuro (1964), ma forse è vero l'opposto: la depressione può essere l'effetto di una dolorosa assenza, che ne Il seme tra le spine è espressa alla perfezione, quando Berto parla «di quella sconfinata capacità del cuore umano di concepire e desiderare un amore sempre più grande di quello che si è già provato»: perché viene il momento in cui questa sconfinata capacità si scontra con un mondo senza più sogni, dove un muro inizia a profilarsi laggiù, sul nostro cammino. Esisterà un amore dopo il quale non ne esisteranno più, mettendo il nostro desiderio a tu per tu con un vuoto nuovo, mai conosciuto prima.
Berto non seppe fare i conti con questo ostacolo. Le premesse della sua scrittura, originale e complessa, precisa e drammatica, che avrebbero potuto dare vita a un'esperienza letteraria nuova, sfiorirono. Berto avrebbe potuto generare nuove forme narrative. Non lo fece. Il male oscuro, pur bello, nonostante le sue apparenze sperimentali rappresenta un passo indietro, dopo il quale ci saranno solo molti, nuovi passi indietro. Il mondo intellettuale e la cultura accademica dell'Italia, le sue chiusure ideologiche e il suo eterno petrarchismo, uniti al carattere impaziente del Nostro, non seppero offrire a Berto gli strumenti culturali veri per fronteggiare questa nuova avventura. Solo un po' di psicanalisi da accattonaggio, niente di più. In fondo, nascondersi in un buco nella terra tra le granate del nemico è un eroismo più facile dell'affronto di una quotidianità che solo nella pazienza e, spesso, nel grigiore di giorni un po' tutti uguali, sa esserci maestra.

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