Cultura e Spettacoli

Chi l'ha detto che solo lo Stato può gestire i beni culturali?

Inventarsi una tradizione in modo che essa confermi l'ideologia che si vuole portare avanti, è un'azione vecchia quanto il mondo: «Non esiste probabilmente un'epoca o un luogo che non abbia assistito all'invenzione di una tradizione» afferma Eric Hobsbawm. Perciò niente di nuovo se aprendo Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente (Einaudi) scritto dal giurista Paolo Maddalena, dagli storici dell'arte Salvatore Settis e Tomaso Montanari e dalla storica Alice Leone, ci troviamo di fronte all'ennesima operazione di un passato opportunamente selezionato affinché dica ciò che gli autori vogliono.
Gli studiosi infatti rileggono la millenaria storia del patrimonio storico-artistico e delle sue leggi come una progressiva affermazione del concetto di proprietà collettiva. Nonostante una geografia politica in perenne movimento, a loro giudizio, si è gradualmente consolidata nella legislazione delle terre italiche la convinzione che il patrimonio debba essere tutelato in quanto bene comune di pubblica utilità, da sottrarre alle cupidità dei singoli. Una legislazione che parte dal diritto romano, prosegue nel Medioevo con (ad esempio) la delibera di salvaguardia della Colonna Traiana (1162), lo statuto di Siena sul decoro civile della città (1309), si affina nell'800, si condensa nel XX secolo con la Legge Rava-Rosadi (1909), la Legge Croce (1920), la Legge Bottai (1939) e si marmorizza nell'art. 9 della Costituzione.
Un lungo percorso che ha uno scopo per gli autori: dare giustificazione storica all'attuale tutela pubblica dell'arte e scongiurare ogni diversa gestione che non sia quella statale. I loro dati non sono falsi ma la loro ricostruzione inventa una tradizione. Non la dimostra. Un esempio su tutti: Settis sostiene che la Costituzione apostolica Quae publice utilia ac decora di Gregorio XIII (1574) affermava «l'assoluta priorità del bene pubblico sugli interessi privati nell'edificazione», proibendo le sopraelevazioni nel centro di Roma. Ma tale proibizione nessuno dice che fosse per salvaguardare l'interesse generale, come vuole Settis: più realisticamente era per non far perdere gerarchie a cupole e campanili.
Le fonti storiche sono le stesse.

Basta leggerle diversamente, unirle con perizia, ed ecco fabbricata la nuova tradizione del patrimonio come bene comune.

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