Cultura e Spettacoli

"Chiamatemi incipit". Nell'inizio del romanzo c'è la nascita dell'uomo

Un saggio analizza il "principio" (e la fine) dei grandi classici. Lì c'è già la storia e il tono di tutto. E il mistero della scrittura

"Chiamatemi incipit". Nell'inizio del romanzo c'è la nascita dell'uomo

Da dove nasce la fascinazione che proviamo per l'incipit di un romanzo e per la sua conclusione? La risposta che dà Giuliana Adamo, la studiosa cui si deve questo dottissimo e ponderoso L'inizio e la fine. I confini del romanzo nel canone occidentale (Longo editore, pagg. 384, euro 28), è che nel romanzo, legato com'è in qualunque sua forma alle passioni umane, le prime righe e le ultime sono quelle in cui l'uomo legge i condizionamenti che il tempo esercita su di lui, il mistero e l'angoscia di quei confini biologici che determinano la propria nascita e la propria morte. Un romanzo nasce e termina, come ciascuno di noi. Il suo venire alla luce è duro, come ogni nascita: Louis Aragon sostenne che l'incipit di un libro è l'urto delle parole con lo spazio bianco del testo. E la sua fine è definitiva e ineluttabile, come ogni morte. È, sempre secondo Aragon, il silenzio che segue la scrittura. Ogni opera di invenzione sorge così, come un'isola vulcanica, tra due misteriosi mari di silenzio.

Spesso la mia curiosità di lettore corre all'incipit di un romanzo per capirne il tono, la portata tematica, le qualità stilistiche. In un buon incipit c'è già tutto. E, di fronte a un romanzo con una gran trama, tante volte mi sono posto la domanda banale ma fatale: come andrà a finire? Un romanzo, sia esso votato al fantastico e al meraviglioso o a descrivere le vicende umane e la società (la canonica distinzione tra romance e novel dovuta a Walter Scott), non può cominciare e finire dove capita, come, a proposito di qualunque narrazione, già annotava Aristotele nella sua Poetica.

Prendiamo l'Iliade e l'Odissea, i due massimi racconti mitici da cui discende tutto l'immaginario occidentale. L'Iliade ha un incipit che spicca per memorabile nettezza, e che va subito in media res: «Cantami, o Diva, del Pelide Achille /l'ira funesta che infiniti addusse/ lutti agli Achei...». Vi vediamo Achille e la sua ira, la guerra e le sue stragi, i temi che attraverseranno tutto il poema. Più vago, quasi divagante, l'incipit dell'Odissea. «L'uomo ricco di astuzie raccontami, o Musa». L'uomo chi? Il «divino Odisseo» verrà nominato soltanto al ventunesimo verso. E questa vaghezza anticipa il tono incantatorio e il tema del viaggio che sono decisivi nel secondo poema omerico. Le conclusioni invece sono simili in entrambi le opere: gli onori resi a Ettore domatore di cavalli e i moniti di Atena per indurre Odisseo a smettere di combattere sono pervasi da un senso di tregua, di pacificazione.

Per venire al romanzo moderno, il Tristram Shandy di Laurence Sterne (1713-1768), opera quintessenziale e onnicomprensiva, ha già in uno straordinario incipit tutta la sua poetica dell'ironia e della digressione: l'io narrante comincia ab ovo dai genitori che stanno per generarlo, e poi impiega ben due libri su nove (in tanti è diviso il romanzo) per arrivare alla sua stessa nascita. La fine è invece una semplice interruzione, riprendendo il tema del coitus interruptus iniziale. Sul fronte opposto all'ironia sterniana, uno degli incipit più memorabili del romanzo moderno è quello del Moby Dick di Herman Melville (1819-1891): «Call me Ishmael». «Chiamatemi Ismaele». La voce narrante di questo prodigioso libro mitico e sapienziale non dice il suo nome: chiede al lettore di essere chiamato così. Con una solennità biblica in cui l'io che parla travalica se stesso, in una prospettiva metafisica che sarà quella di tutto il romanzo. Quanto alla fine, è una delle più belle della letteratura universale: «Poi tutto crollò, e il grande sudario d'acqua tornò a mareggiare come aveva fatto cinquemila anni fa». Tra Dante e Poe.

Un incipit formidabile è quello dei Malavoglia di Giovanni Verga (1840-1922): «Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza». Come individua la Adamo, una sola riga contiene le risposte alle classiche domande Chi? Dove? Quando? e vengono anticipati i toni tipici dell'autore catanese, la sentenziosità ruvida, corale, polifonica, in cui il verismo alla Zola si tinge di note epiche e popolaresche, esistenziali, che fecero apprezzare I Malavoglia a D.H. Lawrence e a Sartre. La conclusione è in linea con la impersonalità oggettiva dell'inizio.

Diversi invece appaiono, almeno nella forma, l'incipit e l'explicit dell'Ulisse di James Joyce (1882-1941). All'inizio Buck Mulligan e la sua netta epifania dall'alto delle scale, con quel «Introibo ad altare Dei» che preannuncia la colossale sostanza dissacrante e demitizzante di tutta l'operazione joyciana. Alla fine la voce di Molly, la moglie del protagonista Leopold Bloom, nel suo torbido flusso di coscienza impastato di desiderio carnale. Che propriamente non è una fine, ma un continuum incontrollabile e insensato. Credo che oggi il romanzo dovrà ritrovare la capacità di costruire grandi storie che stiano tra una nascita e una morte. Un incipit è una promessa. «La marchesa uscì alle cinque». Perché no? Dipende dove, come, perché, e cosa andava a fare.

Ne può uscire un romanzo meraviglioso, anche se Valéry non ci credeva.

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