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Il circo volante e mortale del mitico Barone Rosso

In un libro la vera storia di Manfred von Richthofen Ribaltò le tecniche di combattimento, rendendosi riconoscibile per incutere timore ai nemici. E creò intorno a sé una squadra di autentici assi

Il circo volante e mortale del mitico Barone Rosso

Il mito, che si libra su le ali di un triplano vermiglio, è inscalfibile. Pazienza se lui, quello vero, abbia molto più a lungo volato su un albatros DIII che era un biplano. Pazienza se lui, Manfred von Richthofen era per i francesi le Diable rouge e per gli inglesi the Flying baron : quindi il barone rosso è una strana crasi.

Eppure visto che di Prima guerra mondiale tanto si parla sarebbe il caso di andare a dare un'occhiata da vicino al ragazzo cacciatore - morì a neanche 26 anni - che divenne il più famoso asso di aviazione di tutti i tempi, grazie alle sue 80 vittorie. Anche questa, in fondo, una questione di mito ben venduto. Perché Richthofen non è di certo l'asso con più abbattimenti della Storia, il titolo spetta al molto più ignorato Erich Hartmann (1922-1993) che durante il Secondo conflitto distrusse 352 veicoli.

Bene, per scoprire il vero «Barone rosso» niente di meglio del nuovo saggio pubblicato questa settimana dalla Libera Editrice Goriziana: Il circo volante Richthofen di Greg VanWyngarden (pagg. 228, euro 22, con tavole di Harry Dempsey). Il testo ha il pregio, mettere in luce le doti di Richthofen come organizzatore e come mentore di nuovi trionfi aeronautici.

La stoffa di grande pilota il Barone l'aveva dimostrata sin da subito, facendosi notare dal primo asso dell'aviazione tedesca Oswald Boelcke, vero pioniere nel formalizzare le regole del combattimento aereo. Così l'allievo che stava cogliendo già un gran numero di abbattimenti, aveva già ottenuto la sua 16 vittoria nei cieli della Somme, venne inviato il 16 gennaio del 1917 a prendere il comando della Jasta (squadriglia) 11.

Ed è qui che iniziò a esplodere il suo talento. Capì che, dato lo stato dell'arte degli aeroplani dell'epoca, contava più essere riconoscibile dai propri compagni (e terrorizzare il nemico) che la mimetizzazione. E il suo aereo divenne rosso fiammante. Capì che data l'enorme disparità di mezzi con il nemico, avere dei compagni abili era tutto. Iniziò a selezionare i migliori, a insegnare, a valorizzare. In pochissimo tempo mise in cielo una squadra di natural born killers : Kurt Wolff (33 vittorie), Karl Emil Schäfer (30 vittorie), Karl Allmenröder (30 vittorie), Hermann Göring (22 vittorie) e tanti altri... Portò in volo anche suo fratello a cui non mancava il talento del dog fighting (così viene definito il combattimento ravvicinato tra caccia). Lothar-Siegfried von Richthofen, il «baroncino», che poi morì in un incidente di volo civile, fece precipitare ben 40 aeroplani francesi e inglesi.

Ma per quanto la Jasta 11 fosse uno strumento di guerra temibile, la forza dei numeri e la qualità degli apparecchi erano chiaramente a vantaggio del nemico, che lentamente stava macinando le forze tedesche. Così arrivò l'idea di quello che venne chiamato il «circo Richthofen». Quattro squadriglie vennero riunite a formare il primo stormo da caccia dell'aviazione tedesca, lo Jagdgeschwander I. E qui c'è l'altro versante dell'asso. Il grande organizzatore. Si fornì di linee telefoniche per collegare i campi di aviazione. Organizzò una perfetta rotazione tra le squadriglie in volo. Fece in modo di poter alzare gli aeroplani in meno di un minuto dall'allarme. Cercò di combattere solo in condizioni favorevoli di luce e di forza numerica, capì che serviva una grande logistica e la capacità di spostare gli aerei nei punti giusti del fronte. Altro che solista dei cieli, le vittorie nascevano a terra. E anche l'idea di tutti quegli aeroplani coloratissimi: un po' era spacconata ma molto era calcolo. La riconoscibilità tra compagni valeva la perdita dal punto di vista del mimetismo.

Ma tutto questo non poteva bastare. Richthofen lo capì molto prima di essere abbattuto. Fu una lunga agonia. Venne ferito alla testa, tornò al fronte afflitto da lancinanti mal di testa. Scriveva lettere chiedendo invano più mezzi e più uomini. Vide cadere il suo pupillo Kurt Wolff, alla guida di un instabile triplano Fokker, crivellato dai colpi di un Sopwith Camel. Vide il fratello schiantarsi per il cedimento strutturale di un altro di quei Fokker, che avrebbero dovuto essere macchine perfette e non lo erano, portato in ospedale col viso distrutto. Poco prima di venire abbattuto a Cappy così scriveva: «La battaglia che ora infuria su tutti i fronti è diventata un affare terribilmente serio. Mi sento molto depresso dopo ogni combattimento. Quando rimetto i piedi al suolo una volta atterrato, mi rinchiudo fra le mie quattro mura. Non voglio vedere nessuno».

Quello che si alzò in volo in un ventosissimo 21 aprile 1918 non era più il baldanzoso direttore del circo della morte, era un vecchio, stanco, di 26 anni. E che l'abbiano ucciso i soldati australiani sparando da terra o il capitano Arthur Roy Brown con una brevissima, improbabile, raffica poco importa. L'aviazione aveva già smesso di essere un torneo dei cieli ed era diventata macelleria, quanto le trincee. Ne sarebbe rimasto il mito proprio perché sparivano gli uomini, se si possono definire uomini quegli spietati ragazzini delle macchine volanti.

E così la leggenda vuole che Richthofen agonizzante nel suo aereo abbia avuto il tempo di sussurrare un tragico, cavalleresco: «Kaput».

La storia ci dice che arrivò al suolo già morto e che il suo aereo venne fatto a pezzi per farne souvenir.

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