Cultura e Spettacoli

il commento 2 Beni culturali, poche idee e confuse

di Angelo Crespi

«È possibile aver ragione

singolarmente, e torto messi insieme». Così si potrebbe sintetizzare il dibattito tra liberisti e statalisti circa la gestione del nostro patrimonio culturale. Da un lato, infatti, nessuno crede che i beni culturali possano reggersi senza i fondi pubblici ed è uno scandalo che ogni anno le somme destinate al settore diminuiscano. Dall'altro, è palese che non ci sia nessun esempio (o rarissimi) di gestione pubblica virtuosa neppure nei siti più importanti (vedi Pompei o il Colosseo). È una sonora stupidata pensare che i beni culturali siano il petrolio (essi sono un giacimento sì, ma innanzitutto di senso e identità); scellerato però credere che possano essere all'infinito un capitolo di spesa non virtuosa: se alcuni di essi non sono economicamente sostenibili lo siano almeno dal punto di vista etico. All'estero la valorizzazione del patrimonio culturale, a fronte di un forte investimento pubblico, coincide con risultati economici significativi (il Louvre incassa più di tutti i musei statali italiani). Mentre da noi anche la «privatizzazione» (attraverso il meccanismo delle fondazioni di partecipazione) è stata limitata da lacci e lacciuoli così stringenti da allontanare i privati e riportare la questione nell'alveo del pubblico (è possibile che il bilancio di istituzioni come Biennale, Triennale, Quadriennale, faccia conto economico consolidato della pubblica amministrazione?). Alcune leggi, poi, sono così stupide da non crederci: la Finanziaria per risparmiare prevede che nelle fondazioni culturali (pur essendo incarichi gratuiti!) i membri dei cda scendano a 5, così da rendere impossibile l'ingresso dei privati quando tra i soci già sono presenti Stato, regione, provincia, comune. Sempre la Finanziaria impone che i comuni non investano in mostre più del 20% del bilancio 2009: norma nefasta per le città d'arte che spesso su questi eventi costruivano il proprio marketing territoriale. Senza dire del sistema dei servizi aggiuntivi (bloccato da anni), delle complicazioni per sponsorizzare, della mancanza di politiche di defiscalizzazione per le donazioni... Detto ciò, la cosa che tutti i commentatori notano è l'assenza della politica. Che si voglia liberalizzare il comparto (modello anglosassone), oppure aumentare i poteri dello Stato (modello francese), sarebbe sufficiente che ci fosse stato un progetto, uno qualsiasi, condiviso dai governi che si sono succeduti al Mibac. E invece niente.

Anzi poche idee e confuse.

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