Controcultura

Il culto del Duce Quando Benito era una divinità

Al MuSa di Salò bronzi, statue, ritratti di Mussolini: testimonianze di una «fede popolare» durata vent’anni

Il culto del Duce Quando Benito era una divinità

C’ è Mussolini futurista, c’è Mussolini dalla mascella volitiva e marmorea, c’è Mussolini che si trasfigura nel fascio littorio, ci sono innumerevoli Mussolini equestri, c’è il meraviglioso Mussolini di Renato Bertelli del ’33, una terracotta dipinta di nero con il Profilo continuo del Duce, identico da qualunque parte si guardi, l’occhio dell’Insonne che controlla a 360 gradi, che tutto vede, tutto sa e tutto risolve – quando gli italiani si sussurravano «Se lo sapesse lui...» - e poi c’è, 1937, anno XVI dell’Era Fascista, il Mussolini di Albino Manca, che sguaina la spada dell’islam, e c’è un piccolo esercito bronzeo di Mussolini-mascelloni, c’è un bizzarro «pezzo» di Antonio Ligabue, un bronzetto del 1942-43 che raffigura Mussolini a cavallo, realizzato su commissione, rifatto due volte (evidentemente un po’ malvolentieri): il Capo, come l’artista, ha gli occhi e l’espressione da pazzo... E poi c’è un elegante Mussolini in marsina, un gigantesco Mussolini di cemento ricoperto di lamine d’ottone, e c’è la fantastica e fantascientifica Espressione immaginativa del Duce di Barbara (all’anagrafe Olga Biglieri), un volto di Mussolini in marmo statuario che è - in bianco - la maschera di Dart Fener, cinquant’anni prima, e chissà se George Lucas l’aveva visto su qualche catalogo... C’è l’intero catalogo della figura e del mito di Mussolini nelle sale del terzo piano (lo stesso della sezione permanente sulla Rsi) del MuSa, il museo di Salò che oggi inaugura la mostra – durerà un anno esatto, fino al 28 maggio 2017 – Il culto del Duce. L’arte del consenso nei busti e nelle raffigurazioni di Benito Mussolini voluta, pensata e realizzata dallo storico Giordano Bruno Guerri, direttore del museo e presidente del Vittoriale degli Italiani, la casa di Gabriele D’Annunzio a Gardone Riviera, poche migliaia di metri da qui. «In gioventù Benito Mussolini era stato un attento lettore di Gustave Le Bon, lo studioso di psicologia delle folle – ci dice Giordano Bruno Guerri che ci accompagna in una visita in anteprima -, e aveva ben presente il suo famoso aforisma: “Una credenza religiosa o politica si fonda sulla fede, ma senza i riti e i simboli la fede non può durare”.

E così il Duce trasformò il fascismo in una religione, e se stesso in un dio». Ed eccola, la religione fascista e il suo dio: la divinizzazione procede in ordine cronologico, attraverso due grandi sale e un centinaio di opere (quasi tutte di collezionisti privati e mai viste prima) di artisti sconosciuti, noti, meno noti e celeberrimi, da Salvatore Monaco a Giacomo Balla, da Fortunato Longo a Ernesto Michaelles in arte Thayath (autore del Dux prettamente futurista), da Enrico Prampolini a Mino Delle Site: in tutto 33 sculture e decine e decine di xilografie, dipinti, incisioni, ceramiche (alcune, colorate, bellissime). Iconografie di vario tipo e materiale. Nessuna celebrazione, ovviamente. Ma, per tagliare la testa alle polemiche che pure da giorni agitano questa sponda del Garda, solo la volontà, dice Giordano Bruno Guerri e gli fa eco il sindaco di Salò Giampiero Cipani, di studiare i vari momenti del fascismo, che proprio qui morì: «La mostra è storico-artistica, non politica». E infatti è la prima di una serie che sotto l’occhiello «Il lungo viaggio attraverso il fascismo» per citare Ruggero Zangrandi, racconterà prodromi, glorie, tragedie ed epilogo del Ventennio: il prossimo anno sarà la volta di antifascismo e Resistenza. Intanto, mentre in Italia non c’era ancora l’antifascismo ma solo 45 milioni di fascisti, prima dell’entrata in guerra e delle disillusioni, l’illusione era massima, e il consenso montante. Si inizia negli anni Venti con un Mussolini ancora liberale, ritratto in cravattino e collo di camicia inamidato, dall’aria giolittiana (come in Per la battaglia del grano di Romeo Pazzini, del 1927) e, semmai, risorgimentale, un padre della Patria più che il Primo degli italiani. Poi, negli anni Trenta, dopo il Concordato, alla «fede» del littorio si sovrappone il culto del Duce come strumento di affermazione del regime. «Il carisma di Mussolini fu istituzionalizzato, rafforzato, impostato dalla propaganda divenendo il medium tra la fede delle masse e il futuro della nazione», spiega Giordano Bruno Guerri. E il Duce diventa il prodotto mainstream e vendutissimo della fabbrica del consenso. Mussolini è statista, legislatore, filosofo (c’è una meravigliosa xilografia di Mussolini-Machiavelli di Carlo Guarnieri), scrittore, artista, profeta, messia, maestro infallibile, inviato da Dio, eletto dal destino e portatore di destino, come ha scritto Emilio Gentile. È l’Uomo della Provvidenza. E la Provvidenza ha i suoi corifei. Che raffigurano il Duce sempre più forte, fiero, potente. Mussolini ad un certo punto dismette gli abiti borghesi, si rasa e indossa soltanto divise e camicie nere, oppure la toga romana da Imperatore. E, nella sua apoteosi, è a petto nudo: senza vestiti supera tutte le divisioni di classe. Infatti la seconda parte della mostra – che a dispetto di possibili contestazioni si snoda dentro le sale del museo permanente della Repubblica sociale italiana: alle pareti è appesa la gloria effimera dei Colli fatali, in mezzo si vive la tragedia dell’Italia divisa e sconfitta – si chiude con il gigantesco «dipinto museale» di Alberto Beltrame, una tela 220x117 intitolata Verso la meta che rappresenta Mussolini completamente nudo e vincitore. E che sintetizza la concezione ideologica del pensiero fascista e della sua rivoluzione. Poi sarà il momento dell’Impero e dell’ora fatale, quando il Duce, in fase bellica, è sempre raffigurato con l’elmetto e, metaforicamente, il pugnale in bocca... Quanti volti ha l’Uomo.

L’uomo Mussolini ha mille volti, ma è sempre se stesso. Cambia tutto, eppure il piglio marziale resta uguale. C’è un curioso Mussolini su un cavallo imbizzarrito che intima di tacere alle personificazioni di Stati Uniti, Inghilterra e Francia che guardano timorose. C’è un incredibile Mussolini con gli occhi azzurri. C’è un piccolo ritratto stilizzato di Mario Sironi, c’è un ritratto aeropittorico, ci sono alcuni «pezzi» anonimi e di mano «semplice» che testimoniano la fede popolare nel Duce (l’idea della mostra è di portare fuori dalle case le «opere» dell’epoca, quelle realizzate da donne e bambini: ricordate il ritratto del Duce fatto con i bottoni da Sophia Loren in Una giornata particolare? Ce ne sarebbero di storie da raccontare...). E, infine, c’è il manifesto del plebiscito per le elezioni della Camera dei fasci del 1934: un collage di Mussolini e il popolo italiano che sembra anticipare la pop art di Roy Lichtenstein. A proposito. Per la cronaca, e per la propaganda, gli iscritti a votare furono 10 milioni e 526mila 504, i votanti 10 milioni e 61mila 978, i favorevoli il 99,8% e i contrari – perché il regime sa tollerare il dissenso – lo 0,15%, ossia 15.201 italiani.

Quando l’Italia, insomma, concedeva il massimo consenso al Duce.

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