Cultura e Spettacoli

UN EROE NORMALE Prigione, manicomio e confino non piegarono la sua indipendenza

Vent'anni dopo essere stato espulso dall'Urss come un corpo estraneo, Iosif Brodskij si sentì «rimproverare» dal suo interlocutore polacco, Adam Michnik, direttore della Gazeta Wiborcza , il più importante quotidiano di Varsavia: «Nella tua opera non si vede la rivolta contro il potere. Non sei mai stato un dissidente». Già membro di Solidarnosc, Michnik era un ammiratore di Solzenicyn e, più in generale, dello scrittore come coscienza critica, del ruolo e della missione dell'intellettuale... Quando Brodskij si limitò a dirgli che si sbagliava, anche se non era mai «caduto così in basso da urlare “Abbasso il regime sovietico!”», l'intervista assunse un tono surreale: «Quel regime non ha mai costituito un problema per te. Non ti ha mai interessato» insistette Michnik, senza accorgersi che era proprio questo il motivo per cui, vent'anni prima, dopo averlo messo tre volte in galera, due in manicomio e condannato a cinque anni di confino, il potere sovietico aveva deciso di toglierselo dai piedi. La sua vita e la sua opera erano la prova di un'alternativa possibile al sistema totalitario imposto: come si poteva accettare l'idea di uno scrittore che non faceva parte dell'Unione degli scrittori? La più grande sfida lanciata al regime in fondo era proprio questa, non nutrire nessuna illusione al suo riguardo, comportarsi caparbiamente come se non esistesse...

Nato nel 1940, morto nel 1996, Brodskij trascorse in pratica da esule metà dell'esistenza e lo fece da poeta: «Se lo Stato comincia a dirti che cosa devi scrivere allora puoi ruggirgli contro», altrimenti il tuo compito è la scrittura: «Il più grande nemico dell'umanità non sono il comunismo, il socialismo o il capitalismo, ma solo la volgarità del cuore umano, dell'immaginazione umana. Per esempio la volgare e trita immaginazione di Marx. E la volgare immaginazione dei suoi imitatori russi».

Adesso che Adelphi manda in libreria Conversazioni (pagg. 314, euro 20, traduzione di Matteo Campagnoli, a cura di Cynthia L. Haven), una raccolta di interviste che coprono l'intero arco di una vita da esiliato, si capisce ancora meglio perché Brodskij si rifiutasse di farsi ingabbiare nelle vesti, scomode e insieme compiaciute, del «dissidente a oltranza», da esaltare giornalisticamente a ogni scricchiolio di regime, da mettere giornalisticamente da parte a ogni accordo politico con il regime stesso, incapace di rifarsi una nuova vita, impossibilitato a riavere quella vecchia... Varie volte il nome del gigante Solzenicyn riemerge nelle domande e nelle risposte, e con maggiore frequenza quando il suo anticomunismo si tinge di venature antioccidentali, l'accorgersi che la democrazia da sola non basta a riempire una vita. Brodskij sapeva che l'esilio è una condizione metafisica, perché «ti porta da un giorno all'altro là dove normalmente occorrerebbe una vita per arrivare», una condizione fatta di «una infinitezza anestetizzante, per la smemoratezza che infonde perché apre terrificanti panorami umani e disumani». Sapeva anche, come nota nella sua introduzione Cynthia L. Haven, che se sotto il regime sovietico «era come essere soggetti a una forza di gravità decuplicata, ogni parola e ogni gesto avevano ripercussioni enormi», al contrario «vivere in Occidente era come vivere sulla luna. Si poteva saltare e fare capriole senza alcuno sforzo, ma non significava nulla perché era esattamente quello che facevano tutti».

Intelligentemente Brodskij riconosce a Solzenicyn un ruolo, quello dell'«Omero del potere sovietico, un nuovo genere di epica e qualcosa che va di là dall'ambito letterario. Non può essere valutato secondo i canoni estetici ereditati dall'Ottocento, così come secondo i nostri canoni etici. Perché quando ti sta parlando dell'eliminazione, dello sterminio di sessanta milioni di persone, a mio avviso non c'è spazio per parlare di letteratura e per discutere se la sua sia o meno buona letteratura. In questo caso, la letteratura è assorbita dalla narrazione. È uno scrittore, ma uno scrittore che “usa” la letteratura, e non per creare una nuova estetica, ma per il suo scopo originale, il più antico. Raccontare una storia». È un giudizio che riprende quello di Anna Achmatova la quale, parlando di Una giornata di Ivan Denisovic , l'esordio letterario dell'autore di Arcipelago Gulag , replicava così a chi ancora si attardava su commenti tipo mi piace, non mi piace: «Il punto è che un libro così dovrebbe essere letto da duecento milioni di russi».

Proprio perché Solzenicyn è unico, in quanto «ci sono quei milioni di morti dietro di lui. La forza dell'individuo che è sopravvissuto aumenta in proporzione - in sostanza, non è lui, sono loro», Brodskij si muove su un'altra dimensione, dove l'estetica e la poesia sono le stelle fisse di una compiuta visione del mondo. La prima perché «precede l'etica, è una base più solida su cui costruire una società civile, ti rende un essere umano decente senza bisogno di una legislazione. Tutte le scelte fondamentali della nostra vita sono governate innanzitutto dall'estetica». La seconda perché «si scrive poesia per influenzare le menti e i cuori, per toccare i cuori, per commuovere le persone. Non è un'arte, è qualcosa di più. Se la parola è ciò che ci distingue dalle altre specie, allora la poesia - l'operazione linguistica per eccellenza - è il nostro scopo antropologico. Chiunque consideri la poesia alla stregua di intrattenimento, di “lettura”, commette un crimine antropologico, in prima istanza contro se stesso».

Conscio che «è il ritmo a fare il verso» e che gli schemi metrici non sono artifici tecnici, ma «formule magiche, magneti spirituali», cosicché un contenuto moderno espresso secondo una forma fissa può sconvolgere «quanto una macchina che sfrecci contromano in autostrada», in queste interviste Brodskij oltre a illuminare il suo lavoro illumina quello dei poeti da lui più amati, da Auden a Kavafis, da Mandel'stam a Milosz, agli italiani Dante, Marino, «il mio prediletto», Sbarbaro, Ungaretti, d'Annunzio, Saba: «Se mai esiste una poesia della civiltà - non solo per il tono, ma anche perché capace di sostenere la civiltà - questa è la poesia italiana». E c'è anche spazio per un'inquietante previsione, datata 1989: «un enorme conflitto religioso, non in senso stretto, tra il mondo musulmano e il mondo approssimativamente cristiano, tra lo spirito di intolleranza e lo spirito di tolleranza. I pragmatici suggeriscono che tra questi due principi esiste una sorta di equivalenza. Io non me la bevo nemmeno per un secondo. Per quanto mi riguarda, penso che la visione musulmana dell'ordine universale debba essere schiacciata e annullata. Dopo tutto, dal punto di vista spirituale, abbiamo sei secoli in più di loro, quindi credo che abbiamo il diritto di dire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato».

L'«impolitico», l'«apolitico», il disimpegnato Brodskij..

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