Cultura e Spettacoli

La faccia «normale» della guerra

C'è un altro grande libro, oltre quelli di Jünger, Remarque e Zweig, che racconta l'esperienza del fronte. Questo

La letteratura postbellica della Prima guerra mondiale produsse in Germania tre gioielli, singolarmente posti all'inizio e alla fine degli anni Venti, il decennio in cui la repubblica di Weimar nata dalla accettazione della sconfitta andò a schiantarsi contro il nazismo che del rifiuto della sconfitta aveva invece fatto la sua ragion d'essere.

I titoli di quei tre capolavori erano a loro modo emblematici: Tempeste d'acciaio , La questione del sergente Grischa , Niente di nuovo sul fronte occidentale , quasi a simboleggiare lo slittamento da una riflessione estetica a una valutazione etica per approdare infine a un esame di coscienza individuale e insieme generazionale. E emblematici erano i loro autori, un giovane eroe di guerra, pluridecorato e più volte ferito, Ernst Jünger; uno scrittore ebreo già attivo prima della guerra, Arnold Zweig; un trentenne esordiente nelle lettere che però al fronte era andato ad appena sedici anni, Erich Marie Remarque. Di essi, il primo farà parte della cosiddetta «emigrazione interna» sotto il nazismo, il secondo diverrà una figura di primo piano nella Germania Orientale comunista, il terzo prenderà la cittadinanza americana.

Grazie a questi tre romanzi, i lettore loro contemporaneo aveva dei diversi e complementari punti di vista sulla guerra, esaurienti e però non esaustivi. Jünger raccontava la solitudine del guerriero, Remarque la sua disillusione. Quanto a Zweig, nel presentare il caso del sergente russo Grischa, fuggito dalla prigionia tedesca, ripreso e fucilato come disertore, era la fine del diritto quella che gli stava a cuore, il momento in cui il combattente diventava un assassino.

Ciò che da quelle pagine restava fuori era l'esperienza bellica di chi al fronte era andato e al fronte era sopravvissuto, non si ere esaltato, ma non ne era uscito distrutto, aveva caparbiamente lottato per la propria sopravvivenza e, una volta tornato a casa, si era ingegnato a ricominciare, la guerra come una parentesi e non come un'eredità, o, peggio, una condanna.

Per la verità, questo quarto romanzo-capolavoro qualcuno l'aveva scritto: era uscito anonimo, nel 1929, con il titolo Schlump. Storie e avventure della vita dell'ignoto fuciliere Emil Schulz, soprannominato “Schlump”, da lui stesso narrate , ma purtroppo per lui era uscito proprio nell'anno in cui la pubblicazione del libro di Remarque aveva infiammato la Germania. L'atto di accusa di Niente di nuovo sul fronte occidentale , una guerra senza senso che aveva distrutto una generazione, era quanto la repubblica di Weimar poteva opporre al nazismo montante che vedeva nel pacifismo un attentato alla Germania e in questo scontro non c'era spazio per un libro, di autore ignoto, che di quella guerra non dava una visione ideologica e/o esistenziale, ma la raccontava come una sorta di strampalata favola dove l'eroe era un soldato semplice il cui eroismo era consistito semplicemente nel resistere in un mondo allo sbando. Schlump giunse a vendere 5mila copie, venne tradotto in inglese, pubblicato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e venne definito dal Times «il migliore dei libri tedeschi sulla guerra finora scritti (a parte Grisha)», ma Niente di nuovo ne aveva venduti diecimila in un solo giorno... Quattro anni dopo, finirono entrambi al rogo, «libri antitedeschi» da bruciare, ma intanto Remarque, costretto a emigrare, era divenuto una celebrità internazionale, mentre lo sconosciuto autore di Schlump sprofondava con le ceneri della sua opera.

Adesso che Il soldato Schlump appare in prima edizione italiana (Neri Pozza, pagg. 256, euro 17), la storia di chi lo scrisse merita a sua volta di essere raccontata, emblematica anch'essa come le biografie degli altri tre scrittori prima citati. Il suo nome era Hans Herbert Grimm, era stato anche lui un giovanissimo volontario, a 17 anni, e come loro aveva combattuto sul fronte occidentale. A guerra finita, si era laureato in Lettere, aveva cominciato a insegnare, si era sposato, una moglie pianista, un'esistenza tranquilla e borghese, senza scosse. La decisione di non firmare il suo romanzo, viene da qui, la pura di finire sotto i riflettori, di essere al centro di polemiche. Non ha scritto un romanzo antimilitarista, ma qualcosa di più e di diverso. Un libro beffardo, attraversato da una vena di allegria, tanto più assurda se si pensa al soggetto trattato, eppure tanto più vera se si considera l'assurdità di quella guerra, le trincee e le «posizioni», i materiali e la tecnica, la «guerra dei mezzi» che sostituisce la «guerra degli uomini», l'impero che vorrebbe trionfare e invece crolla, l'imperatore che abdica e che fugge, l'esercito che torna a casa in ordine sparso... Schlump, che in tedesco sta per vagabondo e mascalzone, è Grimm, come lui attaccato alla speranza che tornare a casa è l'unica cosa che abbia ancora e comunque un senso...

L'istinto di sopravvivenza che allora gli ha permesso di salvare la pelle, è lo stesso che nella Germania divenuta nazista terrà Grimm in vita: si iscrive al partito, ma si guarda bene dal farvi carriera, lascia che il suo romanzo rimanga anonimo e finisca in cenere, partecipa alla Seconda guerra mondiale come interprete, ancora sul fronte occidentale. Dopo il '45, la storia gli presenta il conto: per i vincitori è un nazista, eppure il suo romanzo finì bruciato per antinazismo...

Allontanato dall'insegnamento, viene costretto a lavorare in una cava di sabbia, e intanto Altenburg, la città dove ha sempre vissuto, entra a far parte della Germania dell'Est. Nel 1950, viene convocato dalle autorità del nuovo Stato. Che cosa gli propongano non si sa, di cosa lo minaccino neppure. Due giorni dopo, Grimm si spara un colpo di pistola.

Soltanto nel 2008, in seguito alla pubblicazione di un saggio intitolato Il libro dei libri bruciati , i suoi connazionali scopriranno che dietro Il soldato Schlump c'era lui, lo scrittore che si uccise due volte.

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