Cultura e Spettacoli

Da falce e martello a coltello e forchetta

Da "La Gola" a "Slow Food" di Petrini la sinistra conquistò il centro della tavola negli anni Ottanta, in epoca di riflusso

Da falce e martello a coltello e forchetta

La cucina era cosa nostra. Non in senso mafioso: in senso culturale. In Italia il discorso gastronomico era da sempre appannaggio del ceto borghese, se non aristocratico, e senza bisogno di risalire al molto benestante Pellegrino Artusi si guardino i nomi evocati da Alberto Capatti in questa Storia della cucina italiana (Guido Tommasi Editore, pagg. 384, euro 20) che spazia dal 1944 ai giorni nostri.

Negli anni Cinquanta e Sessanta a occuparsi di cibo e di vino erano innanzitutto lo scrittore elegante Mario Soldati, l'inviato in monocolo Paolo Monelli, il conte Guido Piovene (poi capo della cultura di questo giornale), il duca Alberto Denti di Pirajno che era stato l'ultimo prefetto di Tripoli e quindi il principe del giornalismo Orio Vergani, arrestato nel '36 a Barcellona per simpatie franchiste e fondatore nel '53 a Milano dell'Accademia della Cucina, ovvero di un consesso di liberali e industriali, insomma l'esatto opposto di Slow Food. Il nazionalista Vergani, fra l'altro, mai e poi mai avrebbe dato un nome anglofono a qualcosa nato per difendere le tipicità italiane. In quel tempo vedeva la luce Il cucchiaio d'argento , ricettario lussuoso fin dal nome, e la cucina dei migliori ristoranti (il Cambio di Torino, l'Harry's Bar di Venezia, il Dodici Apostoli di Verona...) puntava sugli ingredienti più dispendiosi e classisti ossia tartufi, selvaggina, aragoste.

Ma poi cos'è successo? In concomitanza col declino dei succitati e piuttosto destrorsi maestri, saliva l'astro di Luigi Veronelli, che prima di diventare il numero uno dell'enogastronomia era stato un editore anarchico (in catalogo Proudhon e De Sade). Di sicuro non si trattava di un democristiano ma nemmeno di un trinariciuto: il gourmet bergamasco era un battitore libero. La lunga carriera veronelliana toccò il suo vertice negli anni Settanta col programma televisivo condotto insieme ad Ave Ninchi, A tavola alle 7 . Qualcuno ricorda Ave Ninchi? Una grande attrice che in quell'occasione interpretava la massaia corpulenta: un ruolo a dir poco passatista. La svolta a sinistra non avvenne quindi nel '68 e nemmeno nel '77 ma nel 1982, epoca di riflusso. Fu allora che nacque La Gola ed è una storia che Capatti nel suo libro racconta con dovizia di particolari perché l'ha vissuta dall'interno: era nel comitato scientifico. Più che scientifico però lo chiamerei comitato politico, a giudicare dalla lista dei nomi dove spiccava Nanni Balestrini, poeta superideologico ed esule in Francia per motivi sovversivi. Il grafico-editore Gianni Sassi lavorava con un poster di Lenin alle spalle: a me la visione di quell'assassino seriale avrebbe tolto l'appetito ma ai «comunisti, autonomi, situazionisti, movimentisti» che frequentavano la redazione eccitava le ghiandole salivari. «Perché una simile rivista nasce nella sinistra milanese?» si domanda Capatti. Perché, si risponde, «solo la sinistra poteva sacrificare lo spirito borghese e reazionario dei gastronomi, la loro adesione a tradizioni acriticamente riconosciute, la loro indifferenza per le mutazioni del mondo contemporaneo». Eccoci serviti, noialtri mangioni reazionari. La Gola fu solo l'avanguardia, l'egemonia della sinistra cominciò a delinearsi qualche anno dopo, quando nell'86 nacquero sia Gambero Rosso (dapprima come costola del Manifesto) sia Slow Food (dapprima come costola dell'Arci). Stefano Bonilli è passato a miglior vita mentre Carlo Petrini ancora vive e lotta insieme a noi e forse è per questo che Capatti ce l'ha soprattutto con lui. Lo storico della cucina fu talmente vicino all'Uomo di Bra da venir nominato rettore della petriniana Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, allora un onore e oggi un dolore visto che il rettore non è più lui.

Storia della cucina italiana non è soltanto la storia della carbonara, del tiramisù, della bistecca, del prosciutto e melone (questi saranno i capitoli preferiti dal lettore impolitico), è anche la storia dell'insofferenza dell'autore verso il fondatore di Slow Food, accusato in modo abbastanza ridicolo di essere «semplicemente diplomato» (Capatti invece è laureato, complimenti, bravo) e di essere un conservatore. È vero, Petrini è un conservatore e a confermarlo bastano certe sue parole d'ordine squisitamente autarchiche come «Presìdi», «Chilometro Zero», «Terra Madre». Ne consegue che Capatti è un progressista eppure il suo nichilismo non lo acceca al punto da non vedere che, dopo la destra ghiottona, anche la sinistra golosa ha fatto il suo tempo. Oggi tengono il campo il qualunquismo di TripAdvisor, il vacuo vippismo dei cuochi televisivi, lo spudorato opportunismo di Farinetti: forti dosi di politicamente e gastronomicamente corretto, e nessun vero pensiero.

Oggi la cucina è di tutti e quindi di nessuno, è edonismo senza storia e senza confini, e chi come me insiste ad assegnarle un valore identitario si dovrà accomodare nelle catacombe. Pazienza: se servono a evitare cuscus e wasabi, zenzero e tofu, viva le catacombe!

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