Cultura e Spettacoli

Il fascismo "in vetrina" ha senso solo nel museo dell'Identità nazionale

Ogni esposizione ha carattere celebrativo: dunque politico, non storico. E l'unità della nazione è un bene da conservare

Il fascismo "in vetrina" ha senso solo nel museo dell'Identità nazionale

Sabato scorso il Giornale ha pubblicato un lungo reportage di Luigi Mascheroni da Predappio. Nella città natale di Benito Mussolini il sindaco Giorgio Frassineti, del Pd, vorrebbe trasformare la casa del Fascio (bellissima dal punto di vista architettonico, ma abbandonata da anni) in un museo del Fascismo: sarebbe il primo in Italia. L'idea è sottrarre la città del Duce ai pellegrinaggi dei nostalgici e alla «fascisteria» dei gadget, e istituire un museo - senza apologia né celebrazioni, ma rigoroso dal punto di vista storico - per cercare di capire che cosa fu davvero l'Italia fascista. Sul tema, domenica è intervenuto lo storico Roberto Chiarini; ieri è stata la volta di Nicholas Farrell, giornalista e storico inglese, autore, insieme con Giancarlo Mazzuca, del volume Il compagno Mussolini (Rubbettino, 2013). Oggi sul tema scrive Francesco Perfetti, docente di Storia contemporanea presso la facoltà di Scienze politiche della LUISS Guido Carli di Roma.

Leggendo, in questi giorni, la proposta del sindaco di Predappio di trasformare la Casa del Fascio della città natale del Duce in un museo permanente sulla storia del fascismo per spiegare, al di là delle passioni politiche e delle strumentalizzazioni di parte, un periodo di storia del nostro Paese mi è venuta alla mente una considerazione di Catone il Censore: «È meglio che gli uomini si chiedano perché non ho una statua, piuttosto che si domandino perché ne ho una». I musei, in fondo, sono come i monumenti o come le statue: celebrativi, nella migliore delle ipotesi, o, nella peggiore, destinati a costruire o rafforzare dei «miti fondanti».

Ha dunque senso, storico in primo luogo e politico in secondo luogo, istituire un museo permanente dedicato al fascismo nella speranza che esso diventi, se non proprio lo strumento, quanto meno il pretesto per inaugurare una stagione che porti al superamento delle contrapposizioni ideologiche e, magari, a una riconsiderazione storiografica, sine ira ac studio, del fascismo? Di questo superamento ci sarebbe certamente bisogno. L'Italia di oggi si regge ancora, piaccia o non piaccia, sulla egemonia culturale, di derivazione gobettiana e gramsciana, che fa dell'«antifascismo» e del mito dell'«unità della Resistenza» il suo punto forte. Si regge, in altre parole, su una concezione - diciamolo pure - «totalitaria» della storia: essa implica una valutazione di tipo «virtuistico» degli avvenimenti fondata sulla necessità di mettere tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra e, anzi, di espungere addirittura dalla considerazione dello storico ogni fatto che non risulti funzionale alla «vulgata» ufficiale. Il fascismo, per decenni e decenni, è stato un tabù storiografico: lo stesso Benedetto Croce, prima di presentarlo come una «malattia morale» che aveva infettato l'Italia e l'Europa, lo aveva sbrigativamente liquidato come una «parentesi» nella storia d'Italia quasi a far capire che di essa non era neppure il caso di occuparsi. Poi le cose sono cambiate e il fascismo è diventato oggetto di storia. E di studi storici approfonditi che ne hanno mostrato la complessità.

Un museo dedicato al fascismo - alle sue origini, ai suoi sviluppi, alle sue realizzazioni e ai suoi lasciti, nel bene e nel male - non può avere la funzione che hanno gli studi storici, di comprensione e approfondimento. Per sua stessa natura, ogni museo, quale che sia, ha una dimensione celebrativa, di recupero e conservazione della memoria, individuale e collettiva, di persone o periodi storici. E quindi si risolve nel proporre una lettura che finisce per ruotare attorno a ciò che è musealizzato: una lettura, al di là delle intenzioni, politica e non già storica. Mi chiedo, per esempio, come un museo dedicato alla storia del ventennio fascista possa contribuire a far capire le pulsioni e le anime dell'antifascismo o, ancor di più, a chiarire le vicende della Repubblica Sociale Italia in contrapposizione a quelle del Regno del Sud.

Tutto ciò - sia ben chiaro - non significa affatto che un museo del genere non abbia una sua utilità. Nel caso di Predappio, per esempio, o anche di Salò, esso avrebbe intuibili e non disprezzabili ripercussioni di tipo turistico e, di conseguenza, economico. E, probabilmente, indiscutibili meriti nell'evitare la dispersione di materiali documentari. Ma, per carità, non tiriamo in ballo la ricerca storica. Né, tanto meno, il proposito di contribuire a costruire una storia condivisa e condivisibile. Per giungere a un obiettivo del genere sarebbe necessario percorrere altre strade. Bisognerebbe, semmai, pensare a un altro tipo di museo, a un museo della «identità nazionale» all'interno del quale il fascismo potrebbe trovare un suo posto nel quadro della ricostruzione della evoluzione storico-politica e culturale del Paese. Ma, allora, la sua localizzazione non potrebbe più essere Predappio.

Alcuni anni or sono, recandomi a Mosca come capo del servizio storico del Ministero degli Esteri per formalizzare un accordo sulla pubblicazione di documenti diplomatici paralleli dei due Paesi, mi capitò di visitare, all'interno del Ministero degli Esteri russo, un piccolo museo della diplomazia che ripercorreva, attraverso materiali relativi all'attività internazionale, la storia della Russia dall'epoca zarista all'epoca postcomunista. E mi colpì, anche, la compresenza e l'accostamento, in tutta la città, di simboli propri delle varie epoche della storia russa. La cosa mi fece impressione, ma sbagliavo a meravigliarmi perché il senso dell'«identità nazionale» e della storia nazionale è il valore aggiunto di ogni grande Paese, anche della patria dell'internazionalismo. Non a caso proprio Lenin aveva detto, nel 1918, in un appello al popolo: «Non toccate neppure una pietra, proteggere i monumenti, i vecchi palazzi. Tutto ciò è la vostra storia, il vostro orgoglio».

Il caso russo non è unico. Che dire, per esempio, del Musée de l'Armée presso l'Hôtel National des Invalides di Parigi che parte dal Medioevo e giunge fino all'età contemporanea? La verità è che la storia di un periodo fa parte della storia intera di un popolo e di uno Stato.

Ecco perché preferisco un «museo della identità nazionale», o comunque lo si voglia chiamare, a un museo del fascismo: il primo accrescerebbe la consapevolezza della propria storia nel bene e nel male, il secondo, sia pure inintenzionalmente, rischierebbe di perpetuare divisioni.

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