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Quel film profetico che ci fa entrare nella testa di terroristi e mandanti

Uscito nelle sale nel 2012 e presentato al festival di Cannes nel 2013, "I cavalli di Dio" del regista franco-marocchino Nabil Ayouch racconta la storia di due fratelli nati nella bidonville di Sidi Moumen, i quali diventeranno gli autori degli attentati di Casablanca (maggio 2003). Nella pellicola viene spiegato il nesso tra miseria sociale delle periferie e radicalizzazione dei giovani, tra delinquenza e Jihad

Quel film profetico che ci fa entrare nella testa di terroristi e mandanti

C’è un film profetico uscito nelle sale nel 2012 e presentato al festival di Cannes nel 2013 che può aiutarci ad entrare nella testa dei terroristi della strage di Parigi e dei loro mandanti. Si intitola “I cavalli di Dio” ed è ispirato al romanzo Les Etoiles de Sidi Moumen dello scrittore marocchino Mahi Binebine. La pellicola di Nabil Ayouch, regista franco-marocchino cresciuto nelle banlieues di Parigi e ritrasferitosi in Marocco nel 1999, racconta la storia di Tarek e Hamid, due fratelli nati nella bidonville di Sidi Moumen, i quali diventeranno gli autori degli attentati che nel maggio del 2003 colpirono il cuore di Casablanca uccidendo 41 persone. Il quartiere periferico della città marocchina in cui vivono è un luogo ostile dove la baracche fanno da contorno alla miseria che avvolge le sue famiglie disastrate dalla crisi economica. Da quelle parti è la piccola criminalità organizzata a dettare legge. Il consumo di droga non basta per fuggire da una realtà troppo stretta per chiunque. Il più piccolo dei due, Tarek, sogna di diventare un portiere di calcio professionista come il suo idolo russo Lev Yachine, eppure il destino sarà spietato quanto Hamid, il fratello più grande. Cresciuti troppo in fretta nella banlieue di Casablanca entrambi prendono coscienza dell’ingiustizia della vita.

I due vengono separati quando il maggiore dopo una serie di peripezie viene preso di forza a casa e portato in prigione. Si rincontreranno un po’ di tempo dopo quando Hamid sarà scarcerato. Eppure quando torna a Sidi Moumen non è più lo stesso. Nelle gabbie di Casablanca è stato indottrinato e si è convertito ad un Islam diverso da quello che conoscevano lui e suo fratello quando erano più piccoli. È una religione più settaria e radicale che assomiglia al cosiddetto Wahhabismo, un movimento di riforma religiosa nato per riaffermare quello che secondo i suoi sostenitori sarebbero i principi primi contenuti nel Corano e che si è diffuso in quest’ultimo secolo, nel mondo arabo-musulmano, dall’Arabia Saudita. Tarek inizialmente confuso e preoccupato, viene poco a poco influenzato e portato in una delle moschee del quartiere. L’Imam Abou Zoubeir, capo spirituale del luogo di culto, avrà un ruolo centrale nella loro conversione e poi nell’arruolamento nelle fila del terrorismo. Da sincera fede, la religione si trasforma in uno strumento di dominazione. Sarà lui a prepararli fisicamente e mentalmente ad un progetto molto più grande di loro. Sarà lui ad un certo punto della loro vita a venderli il paradiso in cambio del martirio negli attacchi di Casablanca. Lo slogan prima di farsi saltare in aria è sempre lo stesso: “Allahu akbar”.

Il film è profetico perché in qualche modo racconta il profilo degli stessi stragisti che hanno colpito la Francia: dagli attentati di Tolosa fino al Bataclan passando dalla redazione della rivista Charlie Hebdo. Ma soprattutto spiega il nesso tra la miseria sociale delle periferie (le banlieue, i bidonville, ecc.) e la radicalizzazione dei giovani, tra delinquenza e Jihad. Un nesso che è stato compreso fin troppo bene dall’Arabia Saudita e dal Qatar, grandi alleati dell’Occidente sul piano internazionale, i quali stanno applicando un progetto egemonico che va dal finanziamento di moschee desacralizzate fino all’acquisto della squadra di calcio del Paris Saint Germain. Questo sistema si regge su tre concetti: impoverimento, abbrutimento e radicalizzazione.

Così si fabbrica un terrorista.

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