Cultura e Spettacoli

Fini fa a pezzi il giornalismo. Ed è una buona notizia

Nel suo ultimo libro Il giornalismo fatto in pezzi (Marsilio), Massimo Fini ripercorre la storia d'Italia. E offre al lettore un modo diverso di fare (e raccontare) questo mestiere

Foto di Ivo Saglietti
Foto di Ivo Saglietti

Milano, aprile 2021. "Massimo, ci possiamo vedere? Ho bisogno di uno psicologo". "Vediamoci da me domani sera", risponde Fini. Passano 24 ore e mi presento da lui con un muso lungo così. Gli racconto cosa vorrei fare, gli parlo della delusione per il giornalismo di oggi, spesso approssimativo e quasi sempre troppo veloce. Mi guardo attorno - gli dico - e mi sento un marziano. Non perché io mi senta migliore, sia chiaro. Ma perché ho nostalgia del giornalismo di una volta, quello fatto consumando la suola delle scarpe. Perché mi mancano le inchieste fatte come si deve. Forse tutte cose che non sono in grado di fare ma di cui sento il bisogno che almeno le facciano gli altri. Per oltre due ore tormento il povero Massimo, il quale, alla fine di questo strazio, socchiude gli occhi e, all'improvviso, dice: "Alexa, metti Don Chisciotte di Guccini". Mi chiede se conosco questo canzone e dico di sì, anche se preferisco il Cyrano (probabilmente perché con il personaggio di Edmond Rostand condivido un naso non propriamente greco). "Ho letto millanta storie di cavalieri erranti, di imprese e di vittorie dei giusti sui prepotenti...", inizia la canzone. Massimo chiude gli occhi. Si immerge nella canzone mentre tormenta tra le labbra una sigaretta alla quale ha tolto il filtro. "Colpirò con la mia lancia l'ingiustizia giorno e notte, com'è vero nella Mancha che mi chiamo Don Chisciotte...", prosegue Guccini. Silenzio. Le note corrono veloci, mentre sale l'urlo di don Chisciotte e del suo fedele scudiero: "Sancho ascoltami, ti prego, sono stato anch'io un realista, ma ormai oggi me ne frego e, se anche ho una buona vista, l'apprenza delle cose come vedi non m'inganna, preferisco le sorprese di quest'anima tiranna che trasforma coi suoi trucchi la realtà che hai lì davanti, ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti". Sancho, come suo solito, non capisce nulla ma vuole dare scacco al mondo intero e canta, ma questa volta insieme al cavaliere errante: "Il potere è l'immondizia della storia degli umani e, anche se siamo soltanto due romantici rottami, sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte: siamo i grandi della Mancha, Sancho Panza... e don Chisciotte". Così, in un crescendo, termina la canzone. Fini apre gli occhi e dice: "E quindi è così". "È così", rispondo io, anche se non capisco bene perché ma so che, appunto, è così. "Tra qualche mese uscirà un mio libro, si chiamerà Il giornalismo fatto in pezzi, credo ti piacerà", mi dice.

Milano, novembre 2021. Dopo alcune peripezie, ho finalmente in mano il libro. Scorro l'indice e mi fermo sui temi che mi incuriosiscono di più, o che sento più miei, e mi accorgo che non parlano solo di ieri, ma anche di oggi. "Milano che muore" racconta di una città che non c'è più. Una Milano che ha ancora "il cielo con la rete", ma che forse ha perso la sua anima. Una Milano che dopo essersi conquistata una vita notturna mirabolante l'ha persa negli ultimi due anni: "Milano è buia. Dopo le dieci di sera cala sulla metropoli lombarda una sensazione di angoscia, di solitudine e di desolazione, un silenzio strano e anormale per una città abituata da anni a trar dalla notte, nel suo centro ma anche nei suoi bassifondi, l'alimento e gli spunti per il suo famoso dinamismo notturno". Vado avanti e l'indice si ferma a pagina 384: "Un'altra idea di giornalismo". Un pezzo del 1987 su Tommaso Giglio, direttore dell'Europeo, e una lunga intervista a Giorgio Bocca che, comunque la si pensi politicamente, resta un mostro sacro del giornalismo italiano. Sul primo sento un'eco di don Chisciotte: "I giornalisti dell'Europeo si sentivano, con lui, un po' degli astati, dei cavalieri templari la cui unica religione era il mestiere del quale, soprattutto i giovani, sotto la sua sferza (perché Giglio era un uomo autocratico, dispotico, un vero 'padre-padrone'), imparavano la dura etica. Riusciva a dare al nostro lavoro - che può anche essere molto misero e immiserente se non è preso dal giusto verso - il senso di una missione". Del secondo, invece, condivido la denuncia non tanto (anzi, non solo) riguardante i quattrini e contro il "sindacalismo idiota e suicida" della nostra corporazione, ma anche quella riguardante la mancanza "di soddisfazioni intellettuali, di opinione, di coscienza".

Vado avanti. Mi immergo nella storia del Jean Valjean italiano (non un articolo ma un vero e proprio racconto) e accompagno un morto che ritorna al suo Paese. Salto poi dritto alla fine, alla parte che mi è più affine: quella riguardante i reportage all'estero: nella fredda Unione sovietica che si avvia verso il suo declino e poi nell'immaginifico Iran, passando per New York e Il Cairo. Le immagini e le interviste corrono come se fossero su una pellicola in bianco e nero. Lontana. Di un giornalismo che non c'è più. Fatto all'epoca in pezzi e oggi a pezzi. Ma non c'è solo la nostalgia o, peggio ancora, lo sconforto in questo libro ("l'ultimo", dice, anche se spero non sia così). C'è anche la voglia di dire che si può fare questo mestiere diversamente. Arrivati alla fine, sembra di sentirlo Fini: "E quindi è così". "È così'".

E oggi ho capito il perché.

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