Cultura e Spettacoli

Furti, fughe e un leone. Monologo surreale di un furfante fallito

Cardo parla sempre

Furti, fughe e un leone. Monologo surreale di un furfante fallito

Cardo parla sempre. Risponde a una logica, a un codice etico e personale, a un senso di che cosa merita rispetto e di che cosa no molto soggettivi: è lui stesso che si dà confini morali e principî da seguire. Cardo è un criminale, ma non ti ispira repulsione. Capisci subito che è un furfante, un balordo, ma non capisci immediatamente che cosa sta progettando. Racconta la sua storia, la racconta a qualcuno la cui identità si scoprirà alla fine. Parla sempre lui, appunto, anche quando ascolta. Perché questa è la sua vita, vissuta realmente, ma romanzata da Michele Dalai in Onora il babbuino (Feltrinelli, pagg. 143, euro 13) e vero è il contesto che si sviluppa attorno a un racconto veloce, secco, divertente. Perché Dalai ha il dono di farti sorridere anche quando ti sta raccontando di un tipo borderline come Cardo. Lui, narratore in prima persona delle sue gesta e delle convinzioni sociali. Perché non ha nulla di convenzionale, ma ha molte convinzioni, Cardo. E vengono fuori tutte dalla penna di Dalai, fantastico narratore del lato ironico dell'esistenza. Ed è sempre l'autore che riesce a non farti stare antipatico il protagonista, lo umanizza nella sua dissennatezza. Ne viene fuori un libro bello, pieno, divertente, brillante. Realtà e lettura immaginaria di quella realtà si mescolano. Tutto si ispira a persone e fatti veri, a cominciare dallo stesso Cardo che parlando ininterrottamente si automanifesta come malavitoso maneggione che alla fine si scoprirà sta organizzando il colpo della vita con una rapina in banca all'apparenza ben studiata. Interagisce solo con due persone: una è quella a cui sta raccontando la sua storia, l'altra è il suo fido e poco intelligente scudiero che lo chiama in continuazione per aggiornarlo su come sta procedendo il colpo.

Nonostante i due interlocutori, questo è un monologo. Cardo racconta la sua storia, tira fuori dalla memoria i ricordi dell'infanzia al Sud, dell'emigrazione verso Torino, del padre carabiniere. Alterna il passato remoto con quello recente, che si svolge tra la carrozzeria Lussemburgo della cintura torinese, dove la vita borderline di Cardo passa attraverso auto rubate, fughe, rapine rocambolesche e la presenza di una leonessa, Kira, che un giorno lo renderà famoso per aver provocato il panico durante un allenamento della Juventus.

La surrealtà del racconto rende tutto spassoso, nonostante la narrazione di Cardo a volte si condisca di malinconia o di qualunquismo. Perché la morale piegata a proprio piacimento lo trascina in una filosofia greve: piena di «terroni», di «negri», di «handicappati». Ma è qui che Dalai riesce nell'impresa di farlo risultare quasi simpatico, perché non è cattiveria la sua, è una genuinità rozza figlia di ciò che la vita gli ha messo davanti. Compreso il mestiere del furfante, che il protagonista esercita con l'idea di fare il colpo giusto e finirla. E il colpo giusto è quello che sta coordinando al telefono e dal quale uscirà sconfitto perché il piano non prevedeva un balordo più balordo di lui e un destino grottesco in cui i banditi vengono rapiti durante la rapina. Perché sono una banda non particolarmente sveglia. Il contrario di Papio, il babbuino che dà il titolo al libro e che è una specie di Cardo animale che il Cardo umano ricorda col rispetto che si deve a un tipo giusto. Lo dice al suo interlocutore, che lo ascolta tutto il tempo, che è silenzioso. Chi è? Questo, passando tra battute, sorrisi e qualche momento di commozione, lo scoprirete da soli.

Con un po' di sorpresa.

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