Cultura e Spettacoli

Gibbon visto da Gibbon. Storia dell'ascesa (e trionfo) di uno storico

Gaudente, viaggiatore, mattatore nei salotti. Il grande interprete della fine dell'impero romano si racconta

Edward Gibbon visto da Dariush Radpour
Edward Gibbon visto da Dariush Radpour

C'è un ritratto molto bello, a mezzo busto, che ne fece Joshua Reynolds, uno dei più grandi pittori inglesi del XVIII secolo. In quel dipinto, che recuperava la lezione del manierismo, lo storico Edward Gibbon, allora poco più che quarantenne, appare più bello di quanto in realtà non fosse, stando alle descrizioni che ne sono state fatte. Quel quadro, dipinto quando Gibbon aveva già acquisito una certa notorietà con la pubblicazione dei primi tomi della Storia della decadenza e caduta dell'impero romano , ne sottolinea, attraverso l'intensa espressione del volto e un accenno di sorriso, la personalità, un misto di intelligenza e di ironia, ma anche di vanesio autocompiacimento, tipico di un gentiluomo del Settecento, che amava indossare abiti vistosi.

Che Gibbon fosse un gentiluomo non v'è dubbio. Era nato, primo di sette fratelli, nel Surrey nel 1737 da un'agiata famiglia che aveva il vezzo di dare ai primogeniti lo stesso nome, Edward, come fosse un blasone e un segno distintivo da perpetuare nel tempo. La sua vita, tutt'altro che banale, è raccontata da lui stesso in una bella autobiografia, Memorie della mia vita (Aragno, pagg. 352, euro 18), uscita originariamente postuma a cura del suo amico e curatore testamentario, Lord Sheffield e ora proposta al pubblico italiano in una splendida edizione critica curata da Giovanni Bonacina. Non è affatto un'opera minore rispetto alla Storia della decadenza e caduta dell'impero romano , se non altro per il fatto che non solo illustra la formazione intellettuale di Gibbon, ma anche perché consente di seguire la genesi del suo capolavoro e di coglierne appieno la novità che esso rappresentò nel campo degli studi storici come momento di congiunzione fra la cosiddetta «storiografia erudita» e la nuova «storiografia filosofica» che si era andata affermando in Europa sul modello delle opere storiche di Voltaire.

Gibbon, rimasto orfano di madre quando non aveva ancora compiuto i dieci anni, e di salute cagionevole, compì gli studi in maniera irregolare, alternando periodi di frequenza in scuole pubbliche e private ad altri di insegnamento da parte di precettori. Frequentò per qualche tempo il Magdalen College di Oxford. Convertitosi al cattolicesimo, fu mandato dallo scandalizzato padre in Svizzera, a Losanna, nel 1753 per essere allontanato dalle cattive influenze e riportato alla religione paterna. Lì si convertì nuovamente, imparò benissimo il francese, si dedicò alle letture che amava, completò la propria formazione classica, conobbe Voltaire e tanti altri intellettuali. Trovò anche l'occasione per innamorarsi della figlia di un pastore calvinista, Suzanne Curchod, che sarebbe poi divenuta moglie del ricco banchiere ginevrino Jacques Necker e madre di Madame De Staël. L'incontro con Voltaire, che considerava «l'uomo più straordinario dell'epoca», si trasformò in una frequentazione assidua. Il grande filosofo e storico francese, che si era ritirato sessantenne a Losanna, amava recitare, con un pizzico di vanità, i propri versi in riunioni conviviali e far rappresentare le sue opere in un piccolo teatro allestito in una casa di campagna. Gibbon era sempre presente e trovò il tempo per dedicarsi agli svaghi di società, cenare con gli attori, passare serate giocando a carte o dedicarsi ai piaceri della conversazione.

C'è un lato mondano della vita di Gibbon, tutt'altro che alieno dalla ricerca del piacere: un lato che si espresse negli ambienti salottieri della Svizzera di quel tempo e che si sarebbe sviluppato negli anni a venire. Quando, dopo cinque anni, tornò in Inghilterra, a Londra, Gibbon fu eletto alla Camera dei Comuni fra i tory , viaggiò ancora in Europa, dalla Francia all'Italia, e poté finalmente scrivere il proprio capolavoro. Ma si diede anche alla bella vita, trascorrendo serate gaie e mondane in compagnia di amici nella sua casa di città o nella dimora di campagna o in esclusivi club letterari e politici. In queste riunioni solitamente conquistava il centro dell'attenzione non tanto per l'abbigliamento stravagante e i modi affettati, per il continuo picchiettare sulla tabacchiera e il perenne sorriso ironico e leziosamente compiaciuto, quanto per un eloquio che non lasciava spazio ad altri e che inanellava frizzi, aneddoti, frecciate epigrammatiche di sapore volterriano. L'unico argomento di cui non amava discorrere era proprio il suo lavoro di storico. Sembra, per esempio, che il duca di Gloucester, al quale l'autore portò di persona il secondo tomo della Storia della decadenza e caduta dell'impero romano , lo apostrofasse con una battuta a metà fra l'amabilità e l'ironia: «Un altro maledetto libro grosso e quadrato! Sempre scarabocchi, scarabocchi, scarabocchi! Eh, mister Gibbon?».

Nelle Memorie della mia vita Gibbon ripercorre, con una prosa densa e pervasa da forte tensione intellettuale, i fatti salienti della propria esistenza, dall'infanzia sin quasi alle soglie della morte avvenuta nel 1794, offrendo nel contempo un affresco vivace del secolo dell'Illuminismo destinato a concludersi con la rivoluzione francese. È un testo fondamentale anche per capire la genesi della Storia della decadenza e caduta dell'impero romano , la cui prima idea balenò all'autore in una sera autunnale del 1764 mentre, a Roma durante il suo Grand Tour, si ritrovò meditabondo ad ascoltare nella basilica dell'Aracoeli i frati che cantavano «i vespri nel tempio di Giove sopra le rovine del Campidoglio». In quell'atmosfera misticheggiante Gibbon, a suo dire, si pose il problema di capire come e perché l'impero romano fosse finito e quale ruolo, in tale destino, avesse avuto il Cristianesimo. E nacque, così, la sua celebre opera, accusata di irreligiosità. James Boswell, dopo averla vista, definì l'autore «un burattino infedele».

In realtà, Gibbon non era un «infedele»: era uno scettico moderatamente volterriano in filosofia e conservatore in politica, tanto da apprezzare senza riserve le critiche mosse dal padre del pensiero conservatore, Edmund Burke, alla rivoluzione francese.

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