Cultura e Spettacoli

Tra giustizia e vendetta Giovanni Folchi fu "L'ultimo fucilato"

Prima torturatore di partigiani, poi caduto sotto il plotone d'esecuzione il 7 febbraio del 1946. Un libro-inchiesta di Luca Fazzo sul capitano accusato di collaborazionismo

Una ronda di partigiani per la cattura di fascisti e tedeschi (Milano, 1945)
Una ronda di partigiani per la cattura di fascisti e tedeschi (Milano, 1945)

È in libreria "L'ultimo fucilato. Fascisti, partigiani, giudici e voltagabbana nell'Italia della Liberazione" (Mursia, pagg. 204, euro 15) di Luca Fazzo con prefazione di Mario Cervi. Il saggio, fondato su una grande mole di documenti, racconta la fucilazione (7 febbraio 1946) del capitano Giovanni Folchi, fascista della prima ora, ufficiale del Battaglione Azzurro della RSI, condannato per collaborazionismo dalla Corte d'Assise straordinaria. È l'ultima sentenza capitale eseguita a Milano.

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Siamo ai giorni fatali del 25 aprile. C'è un capitano dell'aeronautica, un torturatore del regime repubblichino, e c'è una Milano che ribolle e regola i conti fra il vecchio e il nuovo senza tante cerimonie. Morti e ancora morti, in città e in tutto il Nord. Anche Giovanni Folchi va incontro al suo destino, in quel clima di confusione mista a ferocia. La sua storia è un granello di quella tragedia immane, ma Luca Fazzo, inviato del Giornale di lungo corso, afferra i diversi fili e li lega con un passo rapido e sicuro. Il finale della storia è già scritto, Folchi sarà l'ultimo fucilato a Milano. Il 7 febbraio 1946. Ma la trama non è scontata e si presta a molti colpi di scena, all'irruzione di numerosi personaggi, alle misteriose curve della storia che a volte segue una sua logica e in altre circostanze sembra smarrire anche quel criterio. In ogni caso per raccontare quel periodo furibondo e cupo bisogna tener conto di numerosi fattori: le ragioni dell'ideologia, le vendette personali, la gelosia, il caso, persino l'equivoco.

Si può morire perché si è colpevoli di crimini orrendi, ma si può andare incontro al plotone d'esecuzione anche perché si è scambiati per qualcun altro o semplicemente perché i vincitori, senza nemmeno passare da un'aula della corte d'assise, hanno fissato l'asticella della giustizia all'altezza della loro rabbia. Inappellabile. Folchi entra e esce dal carcere, in un clima surreale. Lo arrestano, anzi no: basta che stia in città. Si difende, scarica su altri. Lo liberano, lo richiamano e lui, senza valutare freddamente gli avvenimenti, invece di scappare, e pure di corsa, si presenta all'appuntamento. Così, dopo un'altalena estenuante, Folchi chiude la sua esistenza stabilendo un triste record: sarà l'ultima persona passata per le armi a Milano.

L'ultimo fucilato (Mursia, pagg. 204, euro 15) si intitola appunto il saggio di Fazzo che racconta quel grappolo di avvenimenti. La forza dell'autore è entrare nella storia con il piglio della cronaca: in pratica si esaminano verbali e resoconti con la lente d'ingrandimento del giornalista abituato a descrivere e a dipanare, per quanto possibile, i grovigli della quotidianità. E allora il cronista corre incontro alla storia tarantolato dal bisogno di mostrare volti e luoghi: eccolo percorrere via Bergamo, viale Montenero, via Ravenna, viale Papiniano su cui si affaccia il carcere di San Vittore, uno degli snodi decisivi di queste azioni. Ma Fazzo arricchisce la già romanzesca trama con un colpo ulteriore: va a pescare al Corvetto, un quartiere periferico e popolare, un vecchio partigiano dimenticato, Enzo Galletti, classe 1928, e lo fa parlare saldando presente e passato. È Galletti, in prima persona, a rievocare le prime, piccole imprese resistenziali per le strade della città. E poi la prima mattanza ambientata in piazzale Loreto, quella dei 15 detenuti antifascisti trucidati nell'agosto 1944: «Andammo lì, quei corpi abbandonati al sole me li ricordo ancora adesso». Poi ecco, la cattura e l'incontro con Folchi, il suo aguzzino, descritto come se i due si fossero incrociati non settant'anni fa, ma nei giorni scorsi: «Questo Folchi era uno grande e grosso, a suo modo non antipatico: parlavamo parecchio e c'era una specie di curiosità reciproca a capire cose avesse in mente l'altro. Probabilmente anch'io gli stavo simpatico... Però a un certo punto arrivarono le botte». E con gli schiaffi le torture: «Il sistema classico era la cassetta: mi costringevano a sdraiarmi su una cassetta di munizioni, a pancia in su, e mi tiravano i piedi e le braccia verso terra».

Sono settimane terribili, quelle passate da Galletti. Poi il 24 aprile le parti s'invertono e l'antifascista lascia la galera con una fuga facile e insieme sanguinosa: «Quando ci rendemmo conto che i tedeschi stavano andandosene, individuammo una porticina nel muro di cinta e ci infilammo per quella via». Sembra una passeggiata e lo è, ma non per tutti. A darsela a gambe levate c'è anche un ufficiale di artiglieria «che era stato ferito in Grecia e a forza di prendere morfina per il dolore era diventato tossicodipendente. Aveva la divisa da soldato ancora addosso: penso che fu per questo che quando sbucammo tutti insieme su viale Papiniano un tedesco che era ancora sul muro prese di mira lui e lo fece secco». Pare di stare dentro un'evasione alla Vallanzasca, invece, per citare un film di Carlo Lizzani, siamo dalle parti di Mussolini ultimo atto.

Quei giorni sono così: si muore per una coincidenza, per un errore, per una svista. E poi perché la ruota gira e le vittime di prima hanno l'occasione per raddrizzare i torti e, in qualche caso, per crearne di nuovi. Fazzo si sofferma, in mezzo a innumerevoli episodi, sull'eccidio avvenuto nel carcere di Schio il 6 luglio 1945: 54 morti, fra cui 6 donne e un ragazzino di sedici anni. Un altro capitolo del sangue dei vinti che a distanza di tanto tempo è ancora materia incandescente e suscita interrogativi in cerca di spiegazione. Per la cronaca, un vecchio partigiano romagnolo, Umberto Fusaroli Casadei, ammise per la prima volta nel 2001 in un'intervista al Giornale , la propria partecipazione alla strage. Salvo poi smentire nelle settimane successive, in un crescendo di minacce e intimidazioni culminate nel recapito a casa sua di un pacco bomba.

L'ultimo a morire, naturalmente, è proprio il capitano Giovanni Folchi che ora trova il suo cantore.

Capace, come scrive Mario Cervi nella prefazione, di unire i dettagli fino a darci «l'affresco di una stagione orribile e memorabile».

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