Cultura e Spettacoli

I liberali di sinistra che snobbano il mercato (ma non i soldi pubblici) e le fumoserie politiche

In Italia la storia del pensiero politico è sempre stata un campo di studi molto coltivato. Fogli come Rivista Storica Italiana, Nuova Rivista Storica, La Cultura, Storia contemporanea, l'Acropoli fino a Nuova Storia contemporanea, hanno dedicato un ampio spazio ai classici della politica. Per di più nel 1968, su iniziativa di Luigi Firpo, Mario delle Piane, Salvo Mastellone e Nicola Matteucci vide la luce Il Pensiero Politico, di elevata cifra intellettuale che diventò quasi la rivista ufficiale degli studiosi di Storia delle dottrine politiche. Seguirono poi altre palestre (da Scienza e politica a Filosofia politica e, di recente, Historia magistra e Rivista di politica) volte ad approfondire temi e autori, da Erodoto a John Rawls, che hanno segnato la riflessione sullo Stato, i diritti, la comunità politica.
Di tutto si sentiva il bisogno meno che di un'ennesima rivista, eppure un gruppo di universitari quel bisogno lo ha sentito, fondando una Storia del pensiero politico (Il Mulino), di cui è appena uscito il primo numero, «Dittatura e dispotismo nell'età della democrazia». Si tratta, per lo più, di studiosi - postcomunisti, neogobettiani, liberali di sinistra - che hanno il mercato «in gran dispitto». E a ragione perché se la nuova rivista dovesse reggersi con gli abbonamenti o le vendite in libreria chiuderebbe presto. Per fortuna in Italia la «mano pubblica» ha sostituito da tempo la «mano invisibile» di Adam Smith...
Ma ne valeva la pena? Leggendo il primo fascicolo non si direbbe. Il farraginoso articolo di apertura, scritto a quattro mani da Luca Scuccimarra e Daniele Di Bartolomeo, «I dilemmi della dittatura. Governo dell'emergenza e patologie del potere nel dibattito rivoluzionario in Francia (1789-93)», dimostra che il termine «dittatura» che, all'inizio della rivoluzione, rinvia al significato classico di conferimento temporaneo di poteri straordinari ai consoli in circostanze drammatiche (come la guerra), finisce poi per caricarsi di un valore così negativo da diventare indistinguibile da tirannide. Tutto qui! Nessun sospetto che, in un'età in cui la società civile non si lascia assorbire dalla politica, l'istituto romano della dittatura non riesca più a giustificare la sospensione dei diritti civili e che la repressione della libertà, la cancellazione delle sue «garanzie», richieda ormai un indottrinamento sistematico di tipo pretotalitario, prematuramente tentato da Robespierre.
Se Scuccimarra e Di Bartolomeo avvolgono le loro analisi nelle fumisterie del linguaggio accademico-barocco, «in più spirabil aere», almeno per la chiarezza espositiva, ci porta il successivo articolo di Giovanni Borgognone, «Dopo il delitto Matteotti. Gramsci, Gobetti e il problema della democrazia»: vi si dimostra, in maniera convincente, come Gramsci, nella sua contrapposizione al fascismo, pensasse a una «democrazia nuova, “proletaria”, incompatibile con il parlamentarismo e con le istituzioni liberaldemocratiche», una totalitaria «omogeneità sociale e ideologica». Borgognone, però, fa di Gobetti l'antitesi di Gramsci per il suo porre «alla base di una democrazia moderna e vitale, l'impegno delle masse, e delle élites che ne erano espressione sul terreno della politica e nella prospettiva della lotta e della competizione». Una rigenerazione del Paese affidata alla dialettica tra minoranze borghesi e comuniste? Difficile immaginarlo. Nel migliore dei casi, c'era, in Gobetti, una sottovalutazione dell'incidenza delle ideologie sui processi politici, nel peggiore, il convincimento che in Russia i veri liberali fossero Lenin e Trockj. I neo-gobettiani, che nulla eccepiscono contro l'ipotesi che, nell'incendio della lotta, si depurino i conati sovversivi, per coerenza, dovrebbero essere più comprensivi con i liberali simpatizzanti col fascismo: anche loro sottovalutarono gli avversari, ritenendo che il radicalismo delle camicie nere potesse contribuire al consolidamento dello Stato di diritto. Come avvertì Ortega y Gasset, la competizione è garante di progresso quando c'è accordo sui «fondamenti». Pensare di spegnere «il fuoco nella mente» di Gramsci e di Mussolini, per farne la destra o la sinistra affidabile di una democrazia «a norma», significava non aver compreso nulla dei «terribili semplificatori».


E tanto basti: sul resto non merita intrattenersi.

Commenti