Cultura e Spettacoli

Io, commissario Franco Bordelli fra armistizio, alluvione e Dante

La creatura dell'autore toscano ci scrive per rivelare le proprie scomode verità. E un carattere difficile...

Abbiamo chiesto a Marco Vichi di dare la parola al suo commissario Bordelli. Eccone la confessione in pubblico. Di Vichi oggi esce per Guanda il romanzo Fantasmi del passato (verrà presentato il 7 a Firenze allo «Spazio Alfieri»). Oggi Vichi partecipa al festival «L'isola delle storie» a Gavoi, in Sardegna.

Mi chiamo Franco Bordelli, e il 2 aprile del '68 avrò 58 anni. Sono nato e cresciuto a Firenze, una città affascinante se vista da lontano, ma aspra e chiusa, che usa l'accetta al posto della compassione. Una città scura, inospitale, che costringe alla difesa. La sua anima è avvelenata dalla paura dei sentimenti più belli, che considera una debolezza. Ma in fondo è una «signora» sentimentale, e dal profondo della sua anima possono scaturire qualità molto diverse, dalla delicata ironia al sarcasmo più rozzo, dalla generosità alla vigliaccheria. Insomma, una città dove non è facile vivere.

In guerra ho passato due anni sulle navi, uno sui sommergibili, e dopo l'Armistizio (cioè la resa) mi sono arruolato volontario nel ricostituito Battaglione San Marco, per inseguire i tedeschi che si ritiravano verso Nord. È stata quella la mia vera guerra. Con i miei compagni d'armi sminavamo i campi e liberavamo i paesi dai nazisti per facilitare l'avanzata degli Alleati, che ci chiedevano di pagare il prezzo degli errori di chi ci aveva trascinato in una guerra assurda a fianco del Terzo Reich. Ho visto saltare in aria i miei compagni, ho combattuto all'arma bianca, ho rischiato ben più di una volta di rimanere ucciso. Siamo tornati in pochi. Nessuno si vorrà mai ricordare di noi, che apparteniamo all'Italia del voltagabbana. Parleranno dei partigiani e degli Alleati, ma non di noi. Comunque a me basta aver fatto la mia parte per cacciare i nazisti, anche se a dire il vero l'Italia del «dopo» mi ha molto deluso.

Nel dopoguerra sono entrato in Pubblica Sicurezza, con l'idea di continuare a combattere contro il male. Non credo di esagerare se dico che il mio è un mestiere davvero complicato. Non sempre il male è dove deve stare, o dove pensiamo che sia, e spesso ho dovuto obbedire alla mia personale legge morale che non corrispondeva del tutto alla legge del codice penale. La legge può essere uguale per tutti quando tutti hanno le stesse possibilità, altrimenti a governare è solo l'ingiustizia. È così che la penso. Per questa mia visione del mondo, alla mia età sono ancora commissario capo, invece di essere questore. Ma a me va più che bene. Non amo il potere e non mi piace vivere tra le scartoffie. Preferisco andare a caccia di assassini, cercare di capire come mai hanno commesso il peggiore dei crimini. Sono curioso di sapere quali sorprese riserva l'animo umano. In fondo, quel che più conta è la passione con cui si fanno le cose. Anche se spesso penso che il mio lavoro sia inutile. È come se cambiassi delle tegole rotte sul tetto di un edificio che sta cadendo a pezzi. Ma non posso farci nulla, vivo le mie illusioni e tiro avanti.

Il mondo intorno a me sta cambiando. I giovani sono profondamente diversi da come ero io alla loro età. Vogliono essere liberi, vogliono togliersi di dosso il peso del passato e ridisegnare la realtà con altri colori. Non ne possono più di sentir parlare di guerra e di macerie. Vogliono divertirsi, ma anche prendere in mano le redini della loro vita. Ai miei tempi non era possibile, con il Testone che regolava ogni cosa.

All'epoca dell'Alluvione mi è capitata l'indagine più dolorosa della mia vita. Un ragazzino violentato e ucciso, poi seppellito nel bosco. Quattro assassini impuniti, di cui avevo scoperto l'identità. Ma non avevo prove, non potevo fare nulla. Ho provato a stanarli, ma la risposta è stata una minaccia terribile: uccideremo tutti i tuoi amici. E così mi sono dimesso e sono andato a vivere in campagna. Pensavo di passare il resto della mia vita a leggere bei romanzi e a coltivare l'orto. Ma il destino è venuto a provocarmi, e mi sono lasciato trascinare da una forza oscura che mi ha fatto commettere qualcosa che adesso mi pesa sulle spalle come il macigno di Sisifo. È stato l'errore più grande della mia vita. Non so se riuscirò mai a liberarmi da quel rimorso.

Credo nell'amicizia, e considero le persone per quello che sono e non per quello che rappresentano o cercano di rappresentare. Le donne mi hanno sempre affascinato, fin da ragazzino. Come tutti, mi sono innamorato a volte di donne sbagliate, ma quegli errori hanno almeno il pregio di farmi assaporare con più piacere i momenti in cui stringo tra le braccia una donna che fa per me. Ancora adesso m'innamoro in un secondo, come un adolescente, spesso di donne molto più giovani di me... Probabilmente è il mio modo di allontanare il pensiero della morte.

Come va ripetendo il mio amico Dante, a dominare ogni cosa è l'Immaginario.

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