Cultura e Spettacoli

John M. Keynes

O ggi sono pochi coloro che non si dicono liberali. Eppure, come scrive nel suo ultimo brillante saggio Carlo Lottieri, Liberali e non. Percorsi di storia del pensiero politico, (La Scuola, pagg. 304, euro 15), si assiste ad un evidente paradosso: alla vittoria «ufficiale» del liberalismo corrisponde il sostanziale rifiuto della sua anima autentica, riassumibile, a partire da Locke, in una serie di rivendicazioni: autonomia della persona, diritti di proprietà, libertà contrattuale, libero scambio, resistenza del singolo contro l'invadenza della collettività, società civile a fronte della prepotenza dello Stato, diritti inalienabili rispetto all'arbitrio della classe politica, libertà religiosa.
Poste queste indiscutibili premesse, rimane tuttavia molto controverso il dibattito sulla loro interpretazione. La proposta di Lottieri si fonda sulla ricostruzione di un percorso storico che pone a confronto, attraverso una serie di letture parallele, una serie di pensatori tra loro divergenti sotto il profilo filosofico, etico, politico, epistemologico, economico, sociale e religioso. Si potrà così ricavare una «mappa» che segni uno spartiacque tra chi è liberale e chi non lo è, anche se, naturalmente, con questo metodo si paga lo scotto di una certa schematizzazione, che comporta l'ovvia opinabilità su alcune scelte fatte dall'autore. È evidente infatti che Lottieri predilige quella linea di pensiero che risale alla Scuola Austriaca, e dunque a Mises e Hayek, fino a sfociare in Murray Rothbard; una linea volta a favorire un ordine sociale spontaneo, fondato su liberi scambi e liberi contratti, e sul rifiuto di ogni forma di positivismo giuridico e di interventismo statale.
Lottieri individua una serie di coppie che negli ultimi quattro secoli hanno segnato in gran parte la storia della cultura occidentale: il primo rappresenta il liberale, il secondo il non liberale. Abbiamo così, per quanto riguarda il Sei-Settecento, la contrapposizione fra Hobbes e Locke, Colbert e Smith, Rousseau e Montesquieu, Hamilton e Jefferson, Kant e Constant. Il confronto tocca le grandi questioni relative ai valori universali della libertà e dell'uguaglianza e ai problemi storico-politici riguardanti la sovranità nazionale, l'assetto economico, sociale e giuridico della comunità. Specialmente su questi ultimi temi la contrapposizione si fa più serrata, quando si passa all'analisi dell'Ottocento e del Novecento: Proudhon e Bastiat, Marx e Tocqueville, Mazzini e Cattaneo, Bakunin e Spooner, Mill e Spencer, Weber e Mises, Keynes e Hayek, Schmitt e Leoni, Rawls e Rothbard.
Interessanti sono soprattutto le antitesi nate all'interno dello stesso universo culturale del liberalismo, che ha visto contrapporsi ai liberali «classici» i cosiddetti liberal (liberali di sinistra). Fra i più famosi possiamo annoverare, a titolo diverso, l'economista John Maynard Keynes, il giurista Hans Kelsen e il politologo John Rawls. Essi, secondo Lottieri, «non si sono presentati come avversari della tradizione liberale, ma hanno in vario modo contribuito a eroderne i fondamenti» privilegiando, nell'ambito della democrazia, l'uguaglianza rispetto alla libertà individuale. Il risultato, perciò, è stato questo: ampliamento a dismisura del potere pubblico e riduzione degli spazi di autonomia dei singoli. Insomma, apparenti liberali, ma in realtà veri statalisti, tutti accomunati dalla superstiziosa credenza della superiorità morale del pubblico sul privato (anche in Italia ne abbiamo una buona scorta).
A questo proposito particolarmente severo è il giudizio di Lottieri su Keynes, posto a confronto con Hayek. Lottieri considera del tutto fallimentare la ricetta dell'economista inglese, il cui merito è stato più che altro quello di aver interpretato in maniera perfetta il proprio tempo, offrendo una legittimazione accademica al New Deal, e garantendo, inoltre, una copertura ideologica all'interventismo dei regimi autoritari. Quando negli anni Settanta le economie occidentali sono entrate in crisi è apparso chiaro quanto fosse fragile l'edificio concettuale del keynesismo che, di fatto, ha portato a una smisurata tassazione, alla spesa pubblica fuori da ogni controllo e alla recessione.
Ben diverso, per Lottieri, è il percorso indicato da Hayek, il quale previde fin dall'inizio l'esito fallimentare di ogni dirigismo economico; previsione confermata dalla fine catastrofica del comunismo.

In conclusione, la «filosofia» statalista può essere definita così: priorità del collettivo sull'individuale, per cui gli esseri umani devono essere tenuti in uno stato di «minorità», assegnando al potere statale il compito di una direzione superiore e cosciente della società, secondo la convinzione, del tutto infondata, che solo organizzando la vita sociale dall'alto sia possibile creare e mantenere un ordine politico e morale valevole per tutti.

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