Cultura e Spettacoli

"L'arte è sempre politica Anche a sua insaputa..."

Un libro indaga il rapporto tra creatività e potere: "Non esistono opere disimpegnate. Ma vanno giudicate per il talento e la forza che hanno"

"L'arte è sempre politica Anche a sua insaputa..."

L' arte è politica, sempre. Lo è nei regimi totalitari, e infatti la chiamiamo propaganda, ma anche nei sistemi democratici. Ce lo spiega Demetrio Paparoni, critico e curatore, nel suo Il bello, il buono, il cattivo. Come la politica ha condizionato l'arte negli ultimi cento anni (Ponte alle Grazie, pagg. 420, 26 euro). La sua analisi inizia con Leni Riefenstahl, la sacerdotessa dell'ideologia nazista, e percorre tutto il Novecento: gli artisti di regime, i «creativi» italiani degli anni Trenta, i legami non idilliaci tra Picasso e i sovietici e quelli più ossequiosi di Guttuso con il Pci. Ci sono, indagati con puntiglio, gli ingenti investimenti della Cia per favorire l'affermarsi dell'Espressionismo astratto, capace di spostare il baricentro dell'arte - e dell'influenza culturale - dalla Vecchia Europa a New York, e le azioni del governo cinese contro gli intellettuali «non allineati».

Chiediamo dunque a Paparoni: oggi ha ancora senso parlare di arte impegnata?
«Per quanto gli artisti non abbiano più vincoli sul piano della sperimentazione come accadeva nei regimi la politica continua a considerare il contenuto più importante del linguaggio e della forma. Non esiste arte disimpegnata: esistono attivisti che fanno politica attraverso l'arte. Questa va però giudicata per la potenza formale che esprime, non per il contenuto».

L'arte è oggi più svincolata dalla politica che in passato?
«Sì, ma è legata a quella che chiamo “l'ideologia della finanza post-ideologica”: nessuno sfugge alla sua influenza. Che i grandi collezionisti siano spesso speculatori fa parte del gioco, né sorprende il potere di certe gallerie, la cui influenza è pari a quella dei musei. Una volta c'erano artisti asserviti ai partiti, oggi ce ne sono altri che promuovono la visione della finanza internazionale».

Vale a dire?
«Si valuta l'arte in base al nome dell'artista, che diventa un brand, e non per la sua qualità. Anche nella realizzazione dell'opera si usano metodi simili a quelli della produzione industriale».

Anche Raffaello aveva la sua bottega, con tanto di lavoranti.
«Certo, ma per produrre pochi grandi capolavori. Oggi la bottega dell'artista ha invece lo scopo di realizzare moltissimi pezzi l'anno, con le stesse regole valide per un qualsiasi oggetto che deve affrontare il mercato internazionale. In Cina questo è più evidente e dichiarato, mentre in Occidente gli artisti sono spesso restii a rivelare il modo in cui lavorano».

Viviamo l'epoca dell'arte in serie?
«La mia analisi non toglie merito all'opera di artisti seriali come Hirst, Koons o Zhang Huan. Spesso i loro lavori hanno grande potenza espressiva. M'interessa però di più chi, come Cattelan, non ha una visione seriale del lavoro e guarda a De Chirico o De Dominicis anziché a Warhol».

La politica italiana condiziona il sistema dell'arte?
«Una prova dell'ingerenza della politica in Italia è data dal ruolo di qualche assessore comunale che nelle grandi città ha agito come se fosse il direttore degli spazi pubblici dedicati all'arte contemporanea, occupandoli e piazzandovi amici e amici degli amici. E questo quando va bene».

E quando va male?
«Trova normale che un assessore possa curare personalmente una mostra nel comune che amministra? Magari può fare bene, ma non è questo il punto. Non si può essere controllori e controllati nello stesso momento, utilizzando denaro pubblico. Compito della politica dovrebbe essere quello di garantire l'autonomia dei responsabili dei diversi spazi espositivi e metterli in concorrenza tra loro per ottenere il miglior risultato».

Nessun esempio positivo?
«Lo prendo dall'estero: Anton Cesar Molina (ministro della Cultura nel governo Zapatero, ndr) per nominare il direttore del Reina Sofia di Madrid istituì una commissione formata dai direttori dei più importanti musei europei. Questi esaminarono i profili dei candidati e scelsero Manuel Borja-Villel che, forte di quella nomina, può operare senza debiti di gratitudine con nessun politico. L'autonomia è fondamentale».

Nel volume dedica ampio spazio agli artisti cinesi dissidenti, molti dei quali sono suoi amici personali. Pechino non è tenera con chi la contesta.
«La libertà di espressione varia da periodo a periodo, la censura non ha regole fisse, si concentra su argomenti che, legati alle contingenze politiche, sono per così dire sotto osservazione».

E dunque?
«Capita che un artista veda bandita la propria opera senza capirne il motivo: questo disorienta tutti. L'obiettivo del governo è far sentire il peso della censura per alimentare incertezze e paure».

Qual è oggi secondo lei l'artista «più politico»?
«In Occidente direi Maurizio Cattelan e Damien Hirst.

Il primo contrasta l'ideologia della finanza internazionale, l'altro l'asseconda».

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