Cultura e Spettacoli

Il lato oscuro della Rivoluzione visto dal conservatore Rivarol

L'intellettuale francese fu uno dei grandi scrittori del '700. Vide tutti i pericoli della furia sanculotta ma non fu ascoltato

Il lato oscuro della Rivoluzione visto dal conservatore Rivarol

Un gustoso e frizzante, ma veridico, ritratto del giovane Antoine Rivarol (1753-1801) ce lo ha fornito, come al solito, Sainte-Beuve. Con pochi tratti di penna ci ha descritto un giovanotto di bell'aspetto e dalle maniere garbate, che, giunto a Parigi dalla provincia poco più che ventenne, aveva saputo conquistare, alla vigilia della Rivoluzione, il favore dei salotti francesi diventandone un idolo con il suo fascino, la sua eleganza, i suoi motti di spirito, le sue impertinenze. Era certamente uno snob raffinato, anche se, primogenito di 16 figli di un albergatore od oste di origine italiana, dovette difendere la propria asserita nobiltà dai frizzi e dalle facezie dei suoi nemici. Eppure come testimonia proprio Sainte-Beuve, un critico e un giudice notoriamente severo Rivarol, pur amando la «vita frivola» si dedicava agli studi con passione e severità: «di giorno si dava tutto alla vita di società, di notte lavorava. La facilità di parlare e d'improvvisare non gli impediva d'approfondire il suo pensiero in solitudine, studiava le lingue, meditava sui principi e gli strumenti di conoscenza, mirava al trionfo dello stile. Quando si sceglieva un posto fra gli scrittori del suo tempo, guardava sempre ai primi. Era ambizioso sotto un'aria indolente».
La vita mondana dissipava le sue energie, lo faceva sentire invecchiato anzitempo, ma al tempo stesso lo incitava ad affermarsi in campo letterario. Con un saggio sull'universalità della lingua francese vinse un concorso bandito dall'Accademia di Berlino e ottenne apprezzamenti da Federico il Grande. Con una bellissima traduzione in francese dell'Inferno di Dante Alighieri poté vantarsi di avere smentito l'anziano Voltaire che, pur avendo simpatia per lui, lo aveva messo in guardia dall'affrontare una impresa difficile e quasi proibitiva che lo avrebbe gettato tra le «grinfie di quel diavolo» di Dante, «il più intrattabile dei poeti». Con un sulfureo Piccolo almanacco dei nostri grandi uomini, che aveva come epigrafe l'espressione Agli dei sconosciuti, poi, si era divertito a sbeffeggiare autori, e più in generale, intellettuali contemporanei che considerava effimeri. In un'epoca nella quale la vita di società imponeva complimentosi ma spesso farisaici elogi, quel piccolo testo rappresentava una provocazione.
Rivarol era un avventuriero dei salotti del tempo. Vi si era intrufolato perché rappresentavano la strada più veloce per affermarsi nel campo delle lettere, ma anche perché si trovava a proprio agio in quel mondo in bilico tra Ancien Régime e Rivoluzione, fra belle donne imbellettate e cicisbei impomatati, tra politici in cerca di appoggi e intellettuali cerimoniosi: un mondo dove il gusto della conversazione, la vivacità dell'ingegno, la battuta salace, il pettegolezzo erano apprezzati. In tutto ciò Rivarol sapeva eccellere e non è un caso che gli enciclopedisti D'Alembert e Buffon, per non dire Voltaire, ne fossero deliziati. In fondo, Rivarol, destinato a passare alla storia come un reazionario legittimista (e tale sarebbe diventato) con il dono di una penna acuminata e velenosa, era un uomo del suo tempo, conservatore e monarchico con un orecchio attento al costituzionalismo di Montesquieu e un occhio critico nei confronti di sprechi e abusi propri dell'Ancien régime.
Quando scoppiò la Rivoluzione ne fu, subito, deluso e non esitò a schierarsi dalla parte del Re. Si accorse, presto, che, con essa, si erano inaugurati i «Saturnali della libertà». E, proprio della Rivoluzione, divenne un attento osservatore e analizzatore nel Journal Politique National da lui quasi integralmente redatto uscito dal 12 luglio 1789 alla fine di novembre 1790. Qui, in ogni numero, Rivarol pubblicò, sotto il titolo di resumé, una specie di cronistoria degli avvenimenti più significativi del periodo rivoluzionario. Adesso, per la prima volta in italiano, una ampia selezione di quei resumé viene raccolta in un bel volume dal titolo Annali della Rivoluzione francese. Dagli Stati Generali alle giornate d'ottobre (Aragno, pagg. XXX-248) a cura di Massimo Carloni, il quale ha selezionato e tradotto i testi di Rivarol premettendovi un bel saggio introduttivo che suggerisce una moderna chiave di lettura della personalità dell'autore presentato non tanto come un gretto reazionario ma piuttosto come un conservatore pessimista e realista. Che si tratti di una lettura corretta lo dimostra l'apprezzamento che, a suo tempo, Edmund Burke, uno dei padri del conservatorismo europeo e uno dei più acuti critici della Rivoluzione francese, tributò alle pagine di Rivarol scrivendo al fratello di questi che un giorno quei «mirabili annali» sarebbe stati posti «accanto a quelli di Tacito». Scrive di lui Carloni: «Pur criticando i privilegi e gli sprechi del vecchio regime, auspicava che si tagliassero gli abusi e non che si troncassero le teste. Era quindi un conservatore liberale, forse troppo liberale per i conservatori del vecchio regime, e troppo conservatore per i liberali borghesi».
Rivarol era impietoso contro la plebaglia «sempre e in ogni Paese la stessa: cannibale e antropofaga», contro la folla parigina, «un sovrano che chiede solo di mangiare, e la sua maestà è tranquilla quando digerisce». Per lui «la plebaglia crede di camminare verso la libertà quando questa attenta alla libertà degli altri». Tuttavia, pur monarchico, non era indulgente con la debolezza di carattere di Luigi XVI e, soprattutto, con i nobili, «libertini annoiati a Parigi e mendicanti dai talloni arrossati a Versailles», oltre che con la stupidità di una Corte incapace di comprendere. La sua previsione era lapidaria: «i vizi della Corte hanno dato inizio alla Rivoluzione, i vizi del popolo la compiranno».
In un altro lavoro, il Piccolo dizionario dei grandi uomini della Rivoluzione, Rivarol rivolse il suo sarcasmo contro «quei grand'uomini di ogni genere» che avevano fatto «di una pacifica monarchia una sì brillante repubblica». Lo fece con ritrattini velenosi. Eccone qualche esempio: Mirabeau «per denaro è capace di tutto, anche d'una buona azione»; Chamfort abbandona la monarchia «dopo aver vissuto della sua infamante elemosina»; Lafayette è un eroe il cui destino è quello di «rendersi ovunque immortale senza servire il suo re»; Robespierre è «il grand'uomo più piccolo e più focoso del Senato francese», una persona la cui fragilità «non ha fatto altro che stimolare la sua eloquenza e accrescere la sua gloria»; Guillotin è il medico patriota che «ha immaginato in grande il bisturi, l'ha diretto su tutti i mali causati dalla giustizia e ha inventato la sua macchina immortale».
Naturalmente, Rivarol fu costretto ad espatriare nel 1792 per mettersi in salvo e riparò a Bruxelles dove conobbe René de Chateaubriad. In una lettera al padre, di alcuni anni dopo, avrebbe raccontato con macabro senso dell'umorismo che era riuscito a fuggire appena una settimana prima che la plebaglia inferocita si presentasse nella sua abitazione per condurlo al patibolo chiedendo: «dov'è il grand'uomo? Veniamo per accorciarlo un po'». Morì giovanissimo, a soli 48 anni, nel 1801, a Berlino dove si era recato per conto del futuro Luigi XVIII. Secondo Sainte-Beuve egli, dal punto di vista intellettuale, forse «non era un genio, era però qualche cosa di più di un semplice uomo di spirito: incarnava pienamente l'ideale dell'uomo di talento». E, si potrebbe aggiungere, da un punto di vista politico, non era De Maistre, ma certo un suo parente stretto.

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