Cultura e Spettacoli

L'Indro inedito a Parigi tra libri, donne e risse

Andò a Parigi per fuggire ancora una volta alla famiglia e al destino di un impiego nella diplomazia

L'Indro inedito a Parigi tra libri, donne e risse

Andò a Parigi per fuggire ancora una volta alla famiglia e al destino di un impiego nella diplomazia che gli si voleva a tutti i costi apparecchiare, in cerca di quella freschezza della vita che nessun ventenne può lasciarsi rubare troppo a lungo, tutto un genere di sentimenti che lui travaserà nei personaggi dei suoi primi romanzi giovanili: smaniosi, alla ricerca di se stessi nelle avventure, incapaci di adattarsi a un’esistenza tranquilla e borghese.

Montanelli «è una schietta anima fascista», come lo definiscono in quei ) giorni le referenze e i controlli dell’Ovra. A Firenze è diventato amico di Alessandro Pavolini, direttore del «Bargello», uomo di una certa cultura e futuro ministro del regime fino al crepuscolo drammatico della Repubblica sociale. Indro inoltre sa scrivere, è in gamba, tutto sommato fidato, e pure con qualche entratura in alto (che in Italia non guasta mai). E così è ritornato in Francia con la scusa di frequentare un corso di perfezionamento alla Sorbona, ma gli riesce di centrare il suo vero obiettivo, quello di farsi ingaggiare da un quotidiano, «La Nuova Italia», o «Italie Nouvelle», un giornale bilingue, organo del Fascio francese, una pubblicazione di dodici pagine che stava particolarmente a cuore a Galeazzo Ciano, altro giovane in ascesa, e allora capo ufficio stampa del duce. Con Ciano, gerarca giovane, dinamico, ambizioso, Indro aveva costruito un rapporto di simpatia che derivava anche da una certa solidarietà tra coetanei (il genero di Mussolini aveva appena sei anni in più di Montanelli).

Nella primavera del 1934, dopo il beffardo ricevimento dei redattori dell’«Universale» a Palazzo Venezia, i ragazzi erano stati accolti con simpatia nello studio di Ciano, una stanza vicina a quella del duce. Disse loro che «ci avrebbe difeso lui da eventuali scontri con il partito», e così fu, per un po’. D’altra parte Ciano assumeva di frequente atteggiamenti anticonformisti e antiborghesi e tendeva a presentarsi come capo e protettore dei giovani movimentisti, come Indro, del «fascismo universale». Negli anni si sarebbe poi trasformato sempre più in un critico che parlava spesso del suocero come si parla, appunto, di un suocero o di una suocera, e molto si agitava per aumentare il proprio potere, sorretto da una piccola corte di banchieri, d’industriali, e anche d’intellettuali e di giornalisti. Il ministero della Cultura popolare praticamente dipendeva da lui, i direttori dei grandi giornali facevano visita prima a lui che ad Alfieri o a Pavolini. [...] In quei giorni Indro era turbato e curioso, come se presentisse la catastrofe che di lì a qualche anno sarebbe precipitata sull’Europa.

Lesse con passione divorante due romanzi appena usciti, La condizione umana di Malraux e Viaggio al termine della notte di Céline, ma la sua vita interiore era ancora quella di un adolescente: razionalità temperata, molti sussulti di ammirazione o di ribellione, poca riflessione, molti ciechi desideri. Doveva ancora imparare a pensare come un uomo. Capire esattamente ciò che voleva, e agire secondo la sua volontà. Parigi gli appare «grandiosa, caotica, tentacolare», come le grandi vetrate del Café d’Orsay, a pochi metri dalla sua stanzetta in Rue de Bac, rischiarate da luci tiepide, le quali lasciavano intravedere le sagome dei clienti seduti ai tavoli, le teste più o meno canute dei giocatori di carte e di scacchi, avvolte da una nuvola di fumo. Indro si muoveva con gesti lenti e cauti, assaporava tutto, aveva forse sulle labbra un sorriso appena abbozzato, il sorriso di chi si rivolgeva alle cose, come per propiziarsele. In tram si vedeva sfilare davanti agli occhi le strade, le vetrine della grande capitale, i lampioni, e tutte quelle cose formavano un mondo misterioso e in fermento, nuovo e cosmopolita di cui voleva assolutamente entrare a far parte, ma da italiano e da fascista, da ragazzino ancora avvolto da una infantile boria rivoluzionaria e forse da un remoto senso d’inferiorità. Dunque visita il Louvre, e non ha niente di meglio da dire che «fra i numerosi autori che Napoleone ha rubato all’Italia e alla Grecia, Delacroix è l’unico francese che non stoni eccessivamente», «Questi sudici non ci perdonano di essere costretti ad ammirarci», e ancora, quasi comicamente: «Ho l’oscura, cocente convinzione di non essere riuscito a capire nulla di questa città».

Ma questo non gli impediva di difendere le proprie opinioni con tranquilla, bambinesca tenacia. [...] E furono interminabili e noiosissime giornate, finché non gli capitò d’inciampare in una di quelle occasioni che, per rare che siano, finiscono sempre con il determinare un destino. Frequentava molti italiani, e giovani studenti greci, pochi i francesi di cui, come s’è visto, diffidava. Si era pure legato sentimentalmente a una signorina di nome Graziella, e non di rado andava a mangiare in una trattoria dall’apparenza equivoca nei pressi della Gare de Lyon, gestita da un magliaro, un omone grande grande e tombolotto, orgogliosamente fascista e orgogliosamente truffatore, che derivava la sua passione per il fascio dall’impressione – peraltro condivisa anche dagli antifascisti – che il regime non fosse altro che la più grande organizzazione malavitosa mai esistita. Quella trattoria era un luogo tutto sommato tranquillo che divenne il suo salotto diurno, e non privo di attrattive, per la cucina ospitale da cui arrivavano sfrigolii e spessi odori di cibo, e per la possibilità di mangiare gratis, visto che Don Ciccio, il magliaro che adorava Mussolini, si accontentava di qualche aneddoto sull’Italia e sul duce, storielle che la fantasia di Montanelli, già pirotecnica, non mancava mai di condire con sapiente coloritura, o d’inventare di sana pianta.

La sera andava a Montmartre, malgrado nelle lettere agli amici vantasse di frequentare luoghi più riflessivi, «meno una vita au ralenti: preferendo le biblioteche del Quartiere Latino ai tabarins e la compagnia di alcuni studenti greci a quella delle cocottes parigine». Ma la verità stava nel mezzo. C’erano le donnine che talvolta lo sfioravano nell’oscurità di certe strade, e oltre alle biblioteche c’era poi tutta quella vita, l’animazione gioiosa, fervida e fremente di una città che lo attorniava avvolgendolo sempre di più. Ed è infatti in una bettola di Montmartre, non alla Bibliothèque de la Sorbonne, che fu testimone d’una rissa così spettacolare da determinare una catena d’eventi che fu la sua prima, piccola fortuna. Dietro le poche finestre illuminate di Montmartre le luci erano così delicate da far pensare che fossero ancora quelle delle lampade a gas di un tempo, mentre fuori, tutt’intorno a lui, i passi concitati risuonavano sul selciato, e le botte turbinavano come mulini a vento. Messosi a distanza di sicurezza, il ragazzo poté assistere a tutta la scena furibonda, anche all’arrivo della gendarmeria che però non riuscì a sedare la rissa, che anzi si amplificò diventando uno strano, esagitato balletto.

Indro raccontò tutto a un cronista di «Paris-Soir», e con tanta dovizia di particolari e colori che il direttore del quotidiano, Pierre Rimbaud, volle conoscere questo giovane e svelto italiano che aveva avuto il naso di trovarsi al posto giusto al momento giusto, e che aveva avuto anche l’occhio vispo di chi, senza far torto alla verità spicciola e cronistica, sa però tendere lo sguardo su un vero essenziale, e più accattivante, ricco e immaginoso, che è poi il senso stesso del fatto, ma solo raccontato meglio. Quella rissa – narrata da Montanelli – divenne epica.

Era il suo stile, e sarebbe diventata la sua cifra specie dopo la frequentazione con Leo Longanesi, suo coetaneo ma in qualche modo suo maestro, forse l’amicizia più determinante della sua vita.

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