Cultura e Spettacoli

"Usiamo i termini inglesi perché non amiano né sappiamo l'italiano"

L'Accademia della Crusca: "Impieghiamo gli anglicismi perché nella capacità di comprendere un testo i nostri giovani e i nostri adulti sono in fondo alla classifica"

Basta con le inutili parole inglesi disseminate qua e là nell'italiano parlato e scritto. Basta esibire l'inglese per finta, usando qualche parola facendo credere così di conoscerlo. Gli italiani possono fare a meno di ricorrere ad anglicismi come «location» per indicare il luogo in cui è collocato un palazzo o un evento, «step» per indicare le tappe di una programmazione, «mission» per indicare un compito o una missione, «competitor» o «performamce». Lo stop all'inglese superfluo arriva dal professore Claudio Marazzini, presidente dell'Accademia della Crusca, che oggi a Firenze, nella sede della più antica istituzione linguistica del mondo, ha tenuto la relazione intitolata «Perché in Italia si è tanto propensi ai forestierismi», in apertura al convegno di studi «La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi».
«Le ragioni per le quali in Italia si è tanto propensi al forestierismo mi paiono le seguenti - ha spiegato Marazzini -: manca il senso di identità collettiva che rende uno stato saldo nella coscienza dei cittadini e manca una buona conoscenza della propria storia e della propria lingua tale da restituire il senso di appartenenza alla cultura nazionale».
Secondo Marazzini «il cittadino italiano, fuor che per il cibo, e anche per questo oggi meno di un tempo, è non di rado una specie di apolide, anche se spesso svantaggiato e poco integrabile all'estero. Con queste basi e radici, i giovani sono facilmente pronti a staccarsi dalla realtà nazionale e a tagliare i ponti». Inoltre, la classe dirigente soffre di un altro vizio, che a sua volta favorisce il forestierismo: «cambiare le parole costa poco o nulla, e a volte dà l'illusione di aver cambiato le cose».
Ma per il presidente della Crusca la minaccia più grave e subdolo che corre la nostra lingua è un altro, paradossale forse: quello di finire in una sorta di riserva indiana. «C'è chi pratica una sorta di raffinato purismo e rifiuta sdegnosamente i termini stranieri, pronto a condividere argomentazioni come quelle che ho fin qui esposto - spiega Marazzini -, ma allo stesso tempo si schiera a favore di un uso totale dell'inglese nei settori in cui di fatto avviene l'emarginazione dell'italiano. Questo atteggiamento, in realtà, è ancora più pericoloso di quello proclive a ogni sorta di forestierismo».
Il problema, ha aggiunto amaramente Marazzini, è che «l'italiano non è una lingua davvero amata dai suoi utenti, al di là delle dichiarazioni superficiali, tanto è vero che gli italiani, sia i giovani sia i vecchi e adulti, sono gli ultimi nelle classifiche della capacità di comprendere un testo». Come in effetti si ricava dai dati Ocse 2013 ripresi dall'ultima indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies).
L'economista Michele Pellizzari riassumendo e commentando i risultati dell'indagine Piacc offre anche una sua ricetta non banale: «per superare la crisi occorre che gli italiani imparino a scrivere, anche senza esibire l'inglese per finta, parlandolo per gioco nelle occasioni in cui non è affatto necessario».
Analogamente, ha concluso il presidente dell'Accademia della Crusca, «sarà il caso di usare gli anglicismi con sobrietà, cercando di discernere i casi in cui sono utili, in cui ci permettono di comunicare meglio con il mondo, e i casi in cui se ne può fare a meno con vantaggio per la chiarezza e semplicità comunicativa».


Proprio nelle scorse settimane la pubblicitaria Annamiaria Testa ha lanciato la petizione «Dillo in italiano», che sollecita un uso più accorto della lingua da parte degli amministratori pubblici e chiede all'Accademia della Crusca di farsi portavoce dell'istanza.

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