Cultura e Spettacoli

Ma l'intelligenza è un obbligo (a parte per gli anglosassoni)

La tradizione letteraria inglese a lungo ha privilegiato la forza e la volontà rispetto all'ingegno. Eppure è la virtù che salva il mondo

Ma l'intelligenza è un obbligo (a parte per gli anglosassoni)

Se qualcuno si prendesse la briga di scrivere una Storia dell'intelligenza , dovrebbe sottolineare che a lungo, in una parte della civiltà occidentale, non è stata considerata la prima delle qualità umane. Anzi. Certo, i greci vedevano il peccato come frutto dell'ignoranza e la conoscenza come via per la virtù, in una perfetta armonia fra «carattere» e «intelletto». Ma sia i Germani sia i Sassoni, spinti dalla durezza dell'esistenza in un clima ostile a privilegiare la forza per sopravvivere, innalzarono a loro virtù primaria la volontà e il coraggio, più che la sapienza. E nonostante «a ogni ondata di popoli, un po' di amore per la pura intelligenza finiva sulle sue coste arricchendo il terreno», anche l'Inghilterra (e poi la sua «discendenza» americana) per molto tempo si è fatta strada grazie soprattutto al carattere, anche se magari con migliori risultati rispetto ad altre nazioni dotate del solo ingegno.

La tesi, molto provocatoria - e infatti all'epoca ebbe un'enorme risonanza nel dibattito culturale - fu sostenuta, cento anni fa esatti, da John Erskine (1879-1951), professore di Letteratura alla Columbia University, nel pamphlet L'obbligo morale di essere intelligenti , apparso nel 1915 e ora pubblicato da Elliot. E se è ormai superato l'impianto della premessa (la tendenza dei popoli anglosassoni ad anteporre all'intelligenza altre virtù, come la fierezza, l'onore o la volontà), appare più che mai attuale, in quest'epoca di analfabetismo di ritorno e anaffetività morale, la conclusione: e cioè che solo l'uso proficuo dell'intelligenza può ambire a unire l'umanità, «permettendoci di entrare in empatia con altri tempi, altri luoghi, altre tradizioni».

Comunque, la parte più interessante del breve saggio di Erskine - un critico che con il suo «Great Books Movement» voleva stabilire un nuovo canone della letteratura occidentale e finì col diventare famoso come autore di romanzi satirici, a dimostrazione di come la tenacia non basti per raggiungere obiettivi ambiziosi - è quella dedicata alla tradizione letteraria inglese, per molti secoli ostile a considerare l'intelligenza una virtù «moderna». Nelle opere di William Shakespeare gli uomini dotati di grande intelletto, da Riccardo III a Iago, sono personaggi malvagi. Nel Paradiso perduto (1667) John Milton attribuisce all'intelligenza il titolo di «maggior pregio del Diavolo». E Charles Kingsley (1819-75), facendo intuire che la stupidità sia cugina stretta della condotta morale e l'ingegno il primo passo verso un mondo di guai, ci ha lasciato un pensiero bellissimo e terribile: «Sii buona, dolce fanciulla, e lascia esser intelligente chi vuole». Di più: nei romanzi di Fielding, Walter Scott, Thackeray e Dickens l'eroe è sempre qualcuno dal carattere buono ma goffo, salvato dal caso o dalla provvidenza divina, raramente dal proprio ingegno. E, passando dalla fiction ai fatti, per secoli l'Inghilterra si è fatta strada solo grazie al carattere. Quando rovesciò Bonaparte, non lo fece sul piano dell'intelligenza, ma su quello della forza fisica.

Del resto, i pericoli che si corrono nel preferire la bontà e il coraggio alla conoscenza e allo spirito scientifico, erano sotto gli occhi di tutti, nel momento in cui Erskine scriveva il suo spiazzante pamphlet . Tre anni prima, quando la Gran Bretagna spedì una nave alla massima velocità in mezzo a una distesa di iceberg, l'orgoglio nazionale emerse in tutta la sua grandezza.

Ma ad affondare fu l'intelligenza.

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