Cultura e Spettacoli

Jean Clair: "L'arte innovativa? Oggi è più facile trovarla al cinema"

Il saggista e curatore Jean Clair controcorrente su tutto: Biennale, contemporanea, ruolo dei musei

Jean Clair: "L'arte innovativa? Oggi è più facile trovarla al cinema"

da Torino

Polemico, controcorrente, scomodo. È Jean Clair, il critico d'arte più controverso perché smonta i facili miti proponendo altre visioni.

Il suo intervento al Salone del libro pone una domanda importante. Che cosa resta di sacro nell'arte contemporanea di oggi?

«Nell'arte occidentale il sacro non c'è più. Manca nella storia, nella vita quotidiana, è una categoria scomparsa dall'utopia sociale. Se uso il termine “sacro” penso a Roger Caillois e a Giorgio Agamben e all'etimologia dell'homo sacer, figura pericolosa e tremenda che non esiste più. In Francia negli anni '30 c'era stato un tentativo di ristabilire l'arte sacra con Picasso e Chagall, poi nel dopoguerra con Bacon, Newmann e Rothko, ma erano individui, non movimenti. Il problema è il cuore della mia riflessione attuale rispetto all'“arte come arte” degli ultimi 40 anni, mentre per millenni serviva a un progetto magico, religioso, spirituale e politico».

Lei se la prende con i mostri sacri della critica e del mercato, definendoli sacrileghi e impostori. Chi salverebbe dell'arte contemporanea?

«I pittori. Le racconto una storia del XX secolo. Bonnard negli anni '20 abitava sul bordo della Senna e riceveva la visita di Claude Monet, che stava a Giverny e aveva 85 anni, lo andava a salutare e a manifestargli la propria ammirazione. Nel '36-37 Balthus alla sua prima mostra a Parigi vede entrare Bonnard che gli chiede di aiutarlo a mettere su i quadri e allo stesso tempo Picasso gli fa visita. Nel '51 Lucien Freud si ferma all'Hotel de Beaux Arts sempre per incontrare Balthus. Sono tre generazioni di pittori che si riconoscono reciprocamente come maestri. Anche oggi ci sono bravissimi artisti che non vengono esposti né riconosciuti. La situazione attuale per loro è peggiore di quella dei maudits alla fine dell'800, loro almeno avevano amatori di gusto e potevano sopravvivere».

Lei inaugurò il Centre Pompidou con una mostra su Duchamp nel '77. Quale pensa sia il destino del maestro del Ready Made?

«Nel prossimo settembre inaugureremo al Beaubourg un'altra mostra su Duchamp. Fu un artista di importanza assoluta ma non è mai stato compreso se non a livello elementare; era molto colto e pensava che la pittura fosse morta. Immaginava di esplorare la quarta dimensione soprattutto nei lavori sul vetro. Di lui mi interessa il livello intellettuale, molto meno quello provocatorio e scontato; tentava di fare sugli oggetti plastici ciò che Mallarmé sperimentava sulla parola».

Le fu affidata la Biennale del centenario a Venezia nel '95. Come rifarebbe oggi un'altra Biennale?

«Non la rifarei. È uno show room per il mercato che non mi interessa. Oppure approfondirei il tema del sacro».

E il Padiglione della Santa Sede alla scorsa Biennale le è piaciuto?

«Noioso, non voleva dire nulla. Per secoli la Chiesa ha espresso il primo potere spirituale nel mondo. Così invece è sembrata una rinuncia, avrebbe potuto usare le sue collezioni fantastiche e porre nuovamente il problema del sacro nell'arte contemporanea».

Da Critica della modernità a L'inverno della cultura, per citare due titoli pubblicati in Italia: le è congeniale la dimensione del pamphlet duro e polemico. In questi libri lei sembra non amare troppo l'arte contemporanea...

«Sono molto confuso sul termine “arte contemporanea”. Fino agli anni '70 si parlava di avanguardia, poi il termine si è monetizzato per le ragioni del mercato e oggi non vuol dire più niente. Arte contemporanea è una griffe, un marchio che dà valore a qualcosa che non vale nulla. La sperimentazione è nel cinema, o nella danza, nella musica, mentre le arti plastiche sono fatte di oggetti e prodotti dal valore fiduciario troppo alto che non rientrano più nel campo del gusto».

E dei musei che pensa?

«Si va verso una galleria d'arte moderna e contemporanea che non ha un tesoro, ma è un luogo dove presentare cose nuove in accordo con il mercato. Le banche hanno una riserva aurea e serve per autenticare la carta che non avrebbe valore, è la stessa cosa».

In La crisi dei musei. La globalizzazione della cultura ha parlato in termini duri del ruolo dei musei. Oggi che i confini si sono ulteriormente allargati ad altri Paesi emergenti, che cosa pensa della situazione di queste istituzioni?

«Il titolo originale era Il disagio nei musei, lo stesso che si registra nella civiltà. Due esempi: a Parigi il Louvre inaugura una mostra sui tesori di Abu Dhabi, fulcro del nuovo mercato, con opere di seconda e terza qualità. Invece a Santa Sofia, il più grande museo di Istanbul, il governo turco vorrebbe ripristinare l'antico valore di moschea. Nel frattempo il Louvre conta 10 milioni di visitatori l'anno, tutti a caccia di un feticcio che non esiste più».

Lei appartiene a una generazione di critici che credevano nel primato dello studio e della scrittura. Che cosa pensa dei curatori di oggi, che al ruolo della critica sembrano aver abdicato?

«Dopo di me vi sono state due generazioni diverse, la prima molto influenzata dai direttori di museo che pensavano che una mostra originale fosse più importante del valore delle opere. Il campione di questa tendenza fu Harald Szeeman. In seguito i nuovi curatori, quelli di oggi, pensano sia importante ristudiare la storia forse perché disillusa rispetto all'innovazione.

Forse un passo avanti».

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