Cultura e Spettacoli

Macché controcultura L'America più vera è classica e moderna

Da "Manhattan Transfer" di Dos Passos a "Stop-Time" di Conroy ai "Frantumi" di Packer: le contraddizioni di un grande Paese

«U.S. 97, Sud delle Cascate Klamath, Oregon, 21 luglio, 1973»
«U.S. 97, Sud delle Cascate Klamath, Oregon, 21 luglio, 1973»

Un'America in frantumi. È quella che sempre più ci raccontano scrittori e artisti statunitensi in opere che non ricordano la protesta della «contro cultura», ma il dissenso di intellettuali che vedono il proprio Paese andare sempre più incontro a quella rovinosa decadenza, sociale e culturale, che già il grande John Dos Passos descrisse in Manhattan Transfer nel 1925.

Ora il romanzo torna nelle librerie italiane nella nuova edizione Baldini Castoldi (pagg. 481, euro 16, traduzione e cura di Stefano Travagli): un segno dei tempi, anche perché Dos Passos - nato a Chicago nel 1896 e morto a Baltimora nel 1970 - è stato a lungo dimenticato ed è sempre relegato tra gli autori americani minori (almeno da noi). Ammirato da André Gide, venerato da Jean Paul Sartre e da William Burroughs, Dos Passos è stato il primo a intuire, ben prima della Grande Depressione e la crisi del 1929, come New York, già allora simbolo di modernità e progresso, fosse una chimera, «una moderna babilonia che condanna a una vita frenetica e senza senso» che ci porta a «ubbidire a un nuovo e urgente bisogno di stimoli continui». In Manhattan Transfer , metafora degli Stati Uniti, Dos Passos vede già «il fallimento dell'uomo massa» raccontando di «uomini che non hanno più coraggio, che vivono afferrando qua è là una piccola gioia e che si narcotizzano stordendosi con sogni mirabolanti». Dos Passos già si chiede: «La cosa terribile quando poi New York inizia a starvi stretta è che non c'è altro posto possibile. È la cima del mondo e tutto quello che possiamo fare è girare e rigirare come in una trappola per scoiattoli».

Al limite si può cercare di fermare il tempo: come in Stop-Time di Frank Conroy, un romanzo edito ora per la prima volta in Italia da Fandango (pagg. 340, euro 19,50, traduzione di Matteo Colombo): un libro che è stato una pietra miliare per tanti lettori e scrittori, da William Styron (che ne ha elogiato «la totale assenza di autocommiserazione») a Norman Mailer («Un'autobiografia unica che ha il candore di un romanzo»). Stop-Time è un'epifania non solo narrativa. Conroy, nato a New York nel 1936 e morto a Iowa City nel 2005, ha scoperto e formato autori come Kurt Vonnegut, Raymond Carver, John Irving e Flannery O'Connor. Un talento che si riflette in questo suo romanzo d'esordio - del 1965, ma tutt'altro che datato - che nasce proprio dal tentativo di rimettere insieme quei «frantumi d'America» vaticinati da Dos Passos. Stop-Time non è, come lo definì il New York Times , soltanto «un'opera trionfale sulla celebrazione della giovinezza», ma la denuncia dei compromessi alla base della Florida di quegli anni («una semi-isterica vacanza permanente»). Da qui inizia un libro on the road che supera i limiti del romanzo generazionale per approdare alla storia che di lì a poco tutti gli americani avrebbero vissuto: lo «schermo bianco» del '68, dei movimenti studenteschi, delle rivolte sociali. Conroy non ne fa cenno, non è un preveggente, ma riesce a intuire che gli anni a venire avrebbero portato i protagonisti a vivere «con la gola che bruciava di bile».

Sono I frantumi dell'America : come il titolo della raccolta di articoli firmati da George Packer, premio Pulitzer per la saggistica, collaboratore del New Yorker , pubblicato ora da Mondadori (pagg. 448, euro 25, traduzione di Silvia Rota Sperti, sottotitolo Storie di trent'anni di declino americano ). Sono storie vere, brevi, incisive, molto narrative (numerosi i riferimenti letterari). Un giornalismo d'inchiesta lontano mille miglia da quello della saggistica europea: il «New Journalism» di Packer va oltre e racconta (dalle acciaierie dismesse dell'Ohio al disastro delle scuole pubbliche in California, lo Stato con reddito pro-capite più alto degli Usa), come «in questo declino i vincitori vincono come non mai, mentre i perdenti precipitano a lungo prima di toccare terra».

Di questo declino è testimone anche Stephen Shore, il quale nella monografia che porta il suo nome - a cura di Marta Dahò e pubblicata da Contrasto (pagg. 320, euro 55) - presenta i suoi scatti più celebri. Nato a New York nel 1947, Shore è stato il primo fotografo vivente ad avere il privilegio di una mostra personale al Metropolitan Museum of Art di New York. Non molto noto in Italia, è tra i pochi a raccontare l'America in tutte le sue sfumature. Come Walker Evans ritrasse gli anni della Depressione, Shore ritrae da anni quello che può essere definito «un grande romanzo americano». Sulle strade dagli anni '70 a oggi, scandaglia le frontiere dell'America con una forza narrativa pari a quella di tanti scrittori contemporanei. Senza bisogno di provocazioni, fotografa lo sviluppo dell'immaginario collettivo statunitense. Partendo non dalle metropoli, come tanti hanno fatto, ma dalle cittadine di frontiera racconta il mutare dei valori con l'avvento dei grandi magazzini, le catene di fast food, i centri commerciali. La sua fotografia forse più emblematica ritrae, nel deserto dell'Oregon, un cartellone pubblicitario che riporta (con la risoluzione di un maxischermo) le bellezze «naturali» di un nuovo complesso residenziale del Nevada. Una metafora potentissima sui Frammenti dell'America . Da una parte il nulla desertificato e dall'altra la speranza di un «sogno americano» non più a portata di mano, ma di portafoglio.

Twitter: @gianpaoloserino

Commenti