Cultura e Spettacoli

Una macchia nera può svelare il giallo del Leonardo perduto

Una macchia nera può svelare il giallo del Leonardo perduto

«I nostri dati sono molto incoraggianti». A parlare è Maurizio Seracini, il bioingegnere toscano che, tra mille polemiche, ha ottenuto qualche mese fa di effettuare sei fori negli affreschi di Giorgio Vasari nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, per verificare con delle sonde endoscopiche se sotto alle pitture dell’autore delle Vite vi fosse la celebre Battaglia d’Anghiari, dipinta da Leonardo in competizione diretta con la Battaglia di Cascina di Michelangelo.
Le ricerche promosse dalla National Geographic Society e da un gruppo di scienziati dell’Università di San Diego sembrerebbero, secondo Seracini, confermare dietro la scena de La Battaglia di Marciano la presenza del dipinto. A sostegno delle ipotesi ci sarebbero quattro indizi. Un campione contenente materiale nero ha una composizione chimica simile a quella del pigmento trovato nella patina bruna della Gioconda e del San Giovanni Battista. Frammenti di un materiale organico rosso, associabile a una lacca, e compatibile dunque con una parete dipinta (molto meno con un semplice intonaco). C’è del color beige che sembra essere stato applicato con un pennello. E infine, è stata confermata la presenza di quell’intercapedine che Seracini cerca ossessivamente da trentacinque anni.
Già nel 1975 lo scienziato ottenne di esplorare le pareti di Palazzo Vecchio con la tecnologia degli ultrasuoni. Era sin d’allora convinto che Giorgio Vasari, ristrutturando il salone a partire dal 1563, avesse lasciato uno spazio tra il nuovo muro e il vecchio, sul quale Leonardo aveva appunto dipinto nel 1505 l’episodio della Battaglia d’Anghiari, preservando così la pittura dalla distruzione. In realtà, nessuna delle fonti antiche cita mai questo escamotage volto a proteggere il capolavoro del genio di Vinci. Lo stesso Vasari ci dice anzi nella versione delle Vite del 1568 (dunque successiva ai suoi lavori nel salone) che Leonardo, dopo aver intrapreso l’opera nel 1505, l’aveva abbandonata. «Et imaginandosi di voler a olio colorire in muro, fece una composizione d’una mistura sì grossa per lo incollato del muro che, continuando a dipignere in detta sala, cominciò a colare di maniera che in breve tempo abbandonò quella, vedendola guastare». Leonardo si era attardato dietro ai disegni preparatori e al cartone. E quando finalmente tradusse sulla parete il disegno preparatorio (il muro era tre volte più grande di quello del Cenacolo di Santa Maria delle Grazie), provò a mescolare i colori alla cera punica, tenendoli liquidi in un braciere, e passandoli sulla parete con spatole e pennelli, per poi fissarli con il calore, che permette di far penetrare la tempera sino al supporto. Ma i bracieri non riuscivano a scaldare sufficientemente il muro, e così il colore finì per colare lungo la parete, sancendo un clamoroso fallimento. Vasari, che ai suoi lavori a Palazzo Vecchio ha anche dedicato un intero libro, i Ragionamenti, non cita mai il presunto «salvataggio» dell’opera dell’illustre predecessore. A rigore di logica, vista la reverenza che aveva per Leonardo, avrebbe dovuto puntarsi al petto come una medaglia l’impresa di aver scongiurato la sparizione del dipinto. A Seracini però questo silenzio non è mai parso sufficiente a smentire la sua idea. A più riprese, a partire dal 2001, l’ingegnere ha esplorato le pareti di Palazzo Vecchio alla ricerca di un qualche segnale che convalidasse la sua teoria. Trovando sempre nuovi sostenitori e finanziamenti. Ma dovendosi accontentare, al lordo dei titoli strillati dalle agenzie, di riscontri bastanti al massimo a non far decadere del tutto la sua ipotesi.
Di certo la presenza di pigmenti può far pensare a una superficie dipinta. Ma cosa resta oggi di una realizzazione che Leonardo aveva abbandonato per problemi tecnici, al punto che il committente Pier Soderini avrebbe lamentato l’inadempienza degli accordi con l’artista? E ancora, quale soprintendenza potrebbe, alla luce di questi elementi, autorizzare quelle indagine invasive che sono le sole a poter dire con sicurezza cosa c’è dietro la parete? Il mistero della Battaglia d’Anghiari rischia di rimaner tale.

E forse è un bene che sia così.

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