Cultura e Spettacoli

Il male di vivere di DFW

Il 12 settembre di trecici anni fa moriva David Foster Wallace: decise di farla finita con la vita impiccandosi. Nei suoi romanzi e nei suoi racconti gli spettri di un male da cui non riuscì mai a liberarsi

Il male di vivere di David Foster Wallace

Qual è stato il suo ultimo pensiero prima che il buio lo inghiottisse per sempre, prima che il silenzio mettesse a tacere quell'urlo sordo che lo divorava dentro? Che cosa lo ha spinto a farla finita, ad attaccarsi al cappio e a penzolare giù come in una forca? C'è stato un pensiero, una preoccupazione, un'ansia che più di tutte gli rendeva la vita insopportabile oppure, dopo tanto soffrire, aveva capito che non sarebbe stato in grado di sostenere più a lungo quel peso che gli schiacciava lo stomaco, accorciandogli il fiato e annebbiandogli la vista? Ci avrà pensato a lungo prima di farla finita con quella corda oppure, giunto al culmine della sopportazione, avrà troncato di getto, senza pensarci più del dovuto e soprattutto trascurando il dolore che avrebbe causato e il vuoto che avrebbe lasciato dietro di sé?

Tutto quel dolore, David Foster Wallace, se lo portava dentro da tempo. Aveva provato a combatterlo, con gli psicofarmaci. Quelle schifezze gli tenevano sì a freno i pensieri cattivi, ma finivano per imbrigliare la sua scrittura. E senza scrivere non riusciva a gestire i propri demoni. Così, alla fine, scelse di fare di testa sua, di cambiare terapia e lasciare che quell'onda depressiva, di cui sono intrisi tutti i suoi scritti, lo divorasse. Senza quel male, molto probabilmente, non sarebbe riuscito a dar vita ai tantissimi fantasmi che popolano i suoi libri. Tutta la sua letteratura trasuda di quel mal di vivere che si è cullato dentro senza mai riuscire a sconfiggerlo e che alla fine è esploso il 12 settembre di (ormai) tredici anni fa.

Si impiccò nel garage di casa, a Claremont, nel sud della California dove il sole fa più male che altrove, perché non dà spazio al fallimento, e dove la polvere del deserto copre tutto e a sé tutto richiama. Aveva 46 anni e un romanzo da concludere. Il Re pallido uscì postumo, qualche anno dopo. E viene da chiedersi se non avrebbe potuto finire altrimenti un libro in cui il tedio della vita lavorativa si compone, pagina dopo pagina, tra le grigie pedine di un pallido (appunto) ufficio dell'Agenzia delle Entrate a Peoria, nell'Illinois. La noia vista come unico, vero antidoto alle paura. Ma paura di cosa? "La nostra piccolezza, la nostra insignificanza e mortalità, la tua e la mia, la cosa alla quale ci sforziamo tutto il nostro tempo di non pensare direttamente - spiega DFW - che siamo minuscoli e alla mercé di grandi forze e che il tempo passa sempre e ogni giorno abbiamo perso un altro giorno che non tornerà mai più e le nostre infanzie sono finite e la nostra adolescenza e il vigore della giovinezza e presto la maturità, che tutto quello che vediamo attorno a noi per tutto il tempo sta decadendo e passando, sta tutto morendo, e così noi, così io, e visto quanto velocemente sono schizzati via i primi quarantadue anni non ci vorrà molto prima che muoia".

David Foster Wallace non ce la fece. Le sue paure, a quarantasei anni, se le portò tutte quante nella tomba. "Sto cominciando a capire che la sensazione degli incubi peggiori, una sensazione che si può avere sia nel sonno sia da svegli, è identica alla forma stessa di quegli incubi, l'improvvisa realizzazione intrasogno che l'essenza stessa, il nucleo degli incubi è sempre stato con te, accanto a te, anche da sveglio, solo che ti è sfuggito. Poi quell'intervallo orribile tra il momento in cui capisci cosa ti è sfuggito e quello in cui volgi lo sguardo indietro e vedi cosa è sempre stato lì, accanto a te, per tutto il tempo. Il tuo primo incubo lontano da casa e dalla famiglia,la tua prima notte all'accademia, avvenne così: il sogno è che ti svegli da un sonno profondo, ti svegli e sei fradicio di sudore, terrorizzato, sopraffatto dalla sensazione improvvisa che insieme a te, in questa strana stanza buia di sub-dormitorio, ci sia un distillato di puro male e quell'essenza, quel nucleo di male, è proprio qui, ora, in questa stanza ed è lì solo per te". A rileggerlo dopo, col senno del poi, dentro a Infinite jest c'è tutta l'incapacità dell'autore a stare davanti alla vita (una vita che solo le dipendenze riescono a rendere sostenibile) senza soccombere.

Quando uscì nelle librerie, il primo febbraio del 1996, Infinite Jest non fu accolto benissimo dalla critica. Se la presero tutti quanti con l'eccessiva lunghezza del romanzo. Troppe mille-e-quattrocento pagine, più altre cinquecento di note integrative (molte di queste fondamentali per la comprensione della storia), per un racconto sperimentale che non può nemmeno essere riassunto senza impoverirne il significato. Quello che a prima lettura non capirono è che in quella tempesta di battute d'inchiostro David Foster Wallace non solo era riuscito a catturare i demoni che violentavano le sue giornate ma anche a stigmatizzare i mali che intossicano la nostre giornate. L'intera narrazione rimbalza tra una prestigiosissima accademia di tennis, dove i ragazzi sgobbano per diventare i migliori al mondo, e un tetro centro di recupero per tossici, alcolizzati e diseredati. Le due strutture confinano e il germe della dipendenza le accomuna. Anche i giovani tennisti sono costantemente strafatti per sostenere le pressioni dell'agonismo. Le stesse pressioni che rendono insostenibile la vita in un mondo dove tutto è intrattenimento, dove il prodotto cadenza persino i giorni, i mesi e l'anno segnato sul calendario. Tra i tanti spettri che compongono Infinite Jest ci sono gli Assassini sulle Sedie a Rotelle, un gruppo separatista quebechiano che vuole mettere le mani su una pellicola che ha il potere di rendere catatonico chiunque inizi a guardarla. È la droga delle droghe, la dipendenza per eccellenza che libera chi vi si accosta dall'incubo che è la vita.

Tra i tantissimi lavori che David Foster Wallace ci ha lasciati, Infinite Jest è sicuramente il più completo. Lì dentro, in tutte quelle pagine, c'è l'essenza dell'autore. Per capirlo bisogna affrontare insieme a lui un vagabondaggio infinito. E, una volta terminato, obbliga a riandare dove tutto ha avuto inizio (riprendendo in mano il primo capitolo) per essere certi di averlo afferrato nel modo giusto. Che, poi, viene anche da chiedersi, c'è davvero un modo giusto per interpretarlo? O, dopo tutto, sarebbe meglio considerarlo per quello che è? Un piccolo scherzo (infinite jest, appunto). Esattamente come la vita, esattamente come il viaggio surreale, fatto intraprendere dai quarantaquattromila attori apparsi negli spot pubblicitari di McDonald's, nel racconto Verso Occidente l'impero dirige il suo corso apparso nel 1998 all'interno della raccolta La ragazza dai capelli strani. Anche in quelle pagine le vite dei protagonisti sono gocce di un inesauribile fiume in cui è impossibile nuotare controcorrente. Un fiume in cui a stento si riesce a rimanere a galla.

Molti, infatti, annegano.

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