Cultura e Spettacoli

Dal fascismo alla repubblica: quando il calcio era epopea

Brizzi racconta passioni e pulsioni dei protagonisti di uno sport che seppe unire l'Italia sotto più bandiere, quelle dei diversi club, e sotto il colore azzurro

Dal fascismo alla repubblica: quando il calcio era epopea

"Nulla al mondo di più bello" di aver compiuto il proprio dovere: così il 20 giugno 1938 il commissario tecnico della Nazionale di calcio italiana, Vittorio Pozzo, commentando su La Stampa l'esito del Mondiale di calcio francese che aveva visto gli Azzurri confermarsi campioni del mondo dopo la vittoriosa finale sull'Ungheria commentò nella sua parallela funzione di cronista l'esito della kermesse. Il punto più alto mai toccato dal calcio italiano tra le due guerre. E punto decisivo in una lunga storia, quella dell'innamoramento tra il nostro Paese e il mondo del pallone, che ebbe proprio nella seconda metà dell'era fascista e nell'alba della Repubblica la sua fase cruciale.

E proprio Nulla al mondo di più bello si intitola il saggio dello scrittore Enrico Brizzi dedicato proprio all'epopea del calcio italiano nel periodo tra guerra e pace. Nella fase, cioè, in cui il traumatico passaggio bellico, la disfatta, la caduta del fascismo, la divisione del Paese e la ricostruzione postbellica trovarono un'Italia lacerata e divisa su tutto, meno che sulla sua nuova, grande passione sportiva. Il calcio, assieme al ciclismo e alla "domenica perenne" del Giro d'Italia narrata anche da Indro Montanelli, divenne nuovo fattore identitario dell'Italia di quegli anni decisivi, segnata prima della crisi del fascismo, poi dalla guerra, infine dalla Ricostruzione. Il regime di Mussolini aveva tentato, da tempo, di mettere il cappello sul "meraviglioso giuoco" di cui l'Italia era diventata il motore propulsore d'Europa, ma la passione sportiva tracimava ogni idea politica, tanto che allo scoppio del conflitto il governo italiano non trovò la forza, nonostante le restrizioni e le cautele, di sospendere la Serie A e i principali campionati nazionali, arrivati a svolgersi fino al 1942-1943, stagione della prima vittoria in campionato del futuro Grande Torino. La penisola, prossima a diventare campo di battaglia, vide fino ai giorni in cui si studiava l'invasione alleata della Sicilia riempirsi i campi e le tribune, in una "distrazione di massa" che offriva una minima parvenza di normalità a un Paese in tensione. Mutatis mutandis, come non leggere in questo un parallelo con il "calcio pandemico", col campionato e le coppe proseguite durante i mesi duri della seconda quarantena invernale e delle chiusure primaverili nel pieno del Covid-19 tra il 2020 e il 2021?

Brizzi racconta passioni e pulsioni dei protagonisti di uno sport che seppe unire l'Italia sotto più bandiere, quelle dei diversi club, e sotto il colore azzurro; riporta del ruolo fondamentale del calcio nel mantenere unita, in una cristallizzazione dell'era asburgica, la Mitteleuropa dei maestri danubiani contro cui l'Italia giocò (e vinse) in tutte le manifestazioni conquistate nell'era Pozzo (Mondiali 1934 e 1938, Olimpiadi 1936, Coppa Internazionale 1933 e 1935) fino alla cancellazione dell'Austria da parte del Terzo Reich; ricostruisce rifacendosi spesso a giornali e racconti dell'epoca dei sentimenti, delle voci e delle passioni che animavano il calcio italiano. Un calcio pre-televisivo, di quelli ideali per costruire epopee e leggende, il calcio di Attilio Ferraris IV, campione del Mondo 1934 assiduo frequentatore di osterie e taverne romane, di Angelo Schiavio, legato ai colori rossoblù del Bologna tanto da scegliere di giocare gratis, di Giuseppe Meazza, campione inarrivabile dalla grande fragilità umana che "si addormentava nei bordelli prima del derby" tra la sua Ambrosiana Inter e il Milan. Il calcio di Silvio Piola, massimo cannoniere del calcio italiano, ma anche di Arpad Weisz, allenatore tre volte campione d'Italia con Ambrosiana e Bologna che sarebbe morto ad Auschwitz durante l'Olocausto, la cui fuga dall'Italia fu poco prima della guerra la più notevole manifestazione dell'arrivo delle nubi della persecuzione e delle leggi razziali che lo colpivano in quanto ebreo.

"Che giochino col Metodo o col Sistema, all'ungherese o barricati col catenaccio", nota Brizzi, questi campioni "ci appaiono figli di un'Italia ancora giovane, più severa e frugale di come la conosciamo". Un'Italia in cui, smentendo il famoso aforisma di Winston Churchill, di partite di calcio la nostra nazionale ne avrebbe perse ben poche e i cui simboli sportivi riapparvero, in larga misura, dopo la fine del fascismo come emblemi della riscossa del Paese. Su questo punto di vista, nessun paragone col presente regge: le vittorie sportive del 2021 hanno inorgoglito il Paese, il trionfo europeo della Nazionale di Roberto Mancini ha dato al Paese una notte di estasi nel pieno della lotta alla pandemia, ma la natura totalizzante dell'esempio e del ruolo-guida assunta dai campioni calcistici e sportivi nel secondo dopoguerra non ha paragoni con l'attualità.

Il Grande Torino di Valentino Mazzola e compagni, degno erede della tradizione sportiva, ricominciò nel dopoguerra laddove aveva finito, con un trionfo dopo l'altro, e divenne il simbolo calcistico della Ricostruzione così come Gino Bartali e Fausto Coppi lo furono sulle due ruote e la squadra di scalatori di Compagnoni, Lacedelli, Ardito Desio e Walter Bonatti che conquistò per la prima volta il K2 lo sarebbe stato nell'alpinismo. A quei tempi la questione non era la promozione del "brand" Italia, la ricerca di conferme in campo sportivo della vitalità del Paese o l'attestazione della natura taumaturgica di qualsivoglia leadership. Si trattava di ricordare al mondo che l'Italia esisteva ancora, orgogliosa e attaccata ai suoi simboli. Si trattava di rilanciare come fattore unificante in un Paese nuovamente diviso politicamente dopo la rottura tra Dc e Pci i simboli sportivi, la nuova "religione civile" leggera delle icone nazionali. E il calcio confermò il suo ruolo-guida.

Tanto che Brizzi colloca la fine dell'età dell'oro al 1950, ai mesi successivi alla tragedia di Superga che il 4 maggio 1949 causò la morte dell'intera squadra del Grande Torino. "Il Toro imbattibile di Mazzola e Loik, di Ballarin e Maroso, di Bacigalupo, Castigliano, Gabetto e dei loro impareggiabili compagni di avventure era l'unica squadra di vertice che fosse transitata indenne attraverso la stagione delle bombe e dello sfacelo", nota Brizzi. "Ecco perché quella maglia granata impreziosita da uno scudetto che nessuno sembrava in grado di scucire dal petto degli undici campioni non rappresentava solamente la bandiera d'un club ma era la certificazione che, in fondo, l'Italia era ancora l'Italia", e che non bisognasse necessariamente vergognarsi di tutto quello che s'era detto, fatto o visto prima del 1945. "Qualcosa di buono c'era anche prima, e quel qualcosa era rimasto, per continuare a manifestarsi in maniera sorprendente".

L'Italia si fermò per i funerali dei campioni del Torino con cui se ne andavano, troppo precocemente, gli ultimi protagonisti della stagione aperta dai successi della Nazionale di Pozzo e chiusa proprio con la drammatica chiamata dell'ex ct, da poco a riposo dopo diciannove anni consecutivi in sella agli Azzurri, per riconoscere i corpi dei campioni defunti. Superga segnò anche la perdita definitiva dell'innocenza di uno sport che, da allora in avanti, avrebbe sempre più potuto confondersi con la storia e l'epica di un Paese intero. Come a più riprese il mondo del pallone avrebbe avuto modo di confermare.

Ricordando all'Italia che è difficile, in molti casi, negare che lo spettacolo del calcio non presenti di fronte a sé "nulla al mondo di più bello".

Nulla al mondo di più bello

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