Cultura e Spettacoli

"Naturale" o combattuto: il mondo è tutta una questione di confine

Un "Atlante" racconta storia, curiosità e difficoltà (spesso poco note) delle frontiere

"Naturale" o combattuto: il mondo è tutta una questione di confine

Quando si è bambini si pensa ingenuamente che le frontiere siano sempre esistite. Poi si cresce, si studia la storia, si sfogliano gli atlanti, si viaggia lontano da casa, si vive la cronaca internazionale e alla fine si capisce che nel corso dei secoli poche cose umane sono state più volatili delle frontiere. Anche se, va detto, quella che separa Iran e Iraq risale al 1639 e dieci anni di guerra furibonda non l'hanno spostata di un millimetro. Mentre quella tracciata tra Portogallo e Spagna risale (tranne poche modifiche) addirittura al 1297, quando Alfonso X di Castiglia e Alfonso III del Portogallo in piena Reconquista firmarono il trattato di Badajoz. Anche se quella più antica, disegnata nel 1278, è quella che ancor oggi sancisce i confini del Principato di Andorra, incastrato tra le alture dei Pirenei tra Francia e Spagna. Ma, in definitiva, si tratta di casi assai rari. Oggi esistono al mondo 323 frontiere terrestri estese per oltre 250mila chilometri. Che diventerebbero quasi 800 contando quelle marittime, ma meno del 30 per cento sono state definite. La maggior parte di queste frontiere ha poco più di 150 anni, risale al periodo coloniale. Molte, specie nell'Europa orientale e nell'ex Urss, hanno meno di 80 anni. La più recente, del 2011, divide Sudan e Sud Sudan. Altre sono contestate e non riconosciute: è il caso della linea che separa Russia e Ucraina per la Crimea recentemente occupata; delle reciproche rivendicazioni territoriali tra India e Cina in Arunachal Pradesh; o della contesa non risolta tra Croazia e Slovenia per il vallone di Pirano.

Sono alcune delle tantissime curiosità storico/geografiche che si imparano sfogliando l'Atlante delle frontiere, compilato da Bruno Tertrais ricercatore francese di questioni geopolitiche e Delphine Papin, coordinatore del settore cartografia di Le Monde, e adesso tradotto in Italia dall'antropologo Marco Aime per Add editore (pagg. 144, euro 25). Un atlante dai tratti cartografici moderni, dove le linee di livello e i tratteggi che segnano i confini sugli atlanti canonici vengono sostituiti da frecce e colori, cronologie e infografiche. Un volume che con un centinaio di tavole illustra una quantità infinita di situazioni complesse di cui a parte chi ci vive solo qualche geografo innamorato della materia ha conoscenza. Perché se dei problemi di confine di Israele leggiamo quasi ogni giorno, di altre situazioni, il più delle volte pacificamente accettate da tutti, nulla sappiamo. È il caso della regione Cooch Behar, una zona che sembra un puzzle per via delle 198 piccole enclave divise tra India e Bangladesh, alcune estese poco più di un ettaro, ma vigilate dal lato indiano da 22mila guardie e 60mila militari. Delle enclave uzbeke in Kirghizistan, come Sokh, la più grande del mondo, 238 chilometri quadrati, popolata però da tagiki. O della ferrovia Vennbahn, a tutti gli effetti territorio belga, nonostante massicciata e stazioni si trovino fisicamente in Germania: una stranezza ereditata dal trattato di Versailles del 1919.

Quel che è certo, si apprende leggendo i saggi che accompagnano i vari capitoli, è che tutte le frontiere hanno una data di nascita. Perché se è pur vero che le frontiere che definiamo naturali ovvero quelle che seguono il corso di fiumi o gli spartiacque montani sono il 55 per cento del totale, è anche vero che il concetto stesso di «confini naturali» è una costruzione ottocentesca, nata dalla convinzione che la natura stessa potesse fornire all'uomo i limiti e le direzioni entro cui muoversi e svilupparsi. Per cui i Pirenei, o le Alpi, venivano considerati il limite invalicabile entro cui racchiudere il proprio stato-nazione. Ma è altrettanto vero che tutte le frontiere, nessuna esclusa, sono artificiali, poiché che quella valle o quell'altra stiano di qui o di là è definito dall'uomo. Ed essendo umane sono suscettibili di essere cambiate, spesso a costo di migliaia di vite.

Le frontiere sono costruzioni culturali che diventano fisiche e possono assumere significati assolutamente differenti in base al versante da cui le si guarda, o al momento storico in cui le si attraversa. Lo racconta bene, a parole, lo storico inglese Benedict Anderson in un libro oramai di qualche anno fa, Comunità immaginate, ripubblicato di recente da Laterza. Un volume in cui Anderson mostra che tutte le Nazioni e le loro frontiere sono il prodotto di un processo di immaginazione costruito da una autorità centrale. Nazioni che una volta immaginate però diventano reali, talmente reali che per i simboli che le incarnano bandiere, divise e appunto confini le persone sono disposte a morire. E lo spiega assai meglio, grazie alla semplicità e all'immediatezza della cartografia, questo prezioso Atlante. La cui filosofia di base è ben riassunta dall'aforisma del compositore spagnolo Pablo Casals citato nella pagine iniziali: «L'amore per il proprio Paese è una cosa splendida.

Ma perché l'amore dovrebbe fermarsi al confine?».

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