Cultura e Spettacoli

La Notre Dame del giallo ha cent'anni

Da Simenon alla Cornwell, la sede della polizia giudiziaria di Parigi ha ispirato generazioni di scrittori

La Notre Dame del giallo ha cent'anni

Giocate questi numeri sull'immaginaria ruota di Parigi: 36, 148, 100. Giocateli e vincerete un viaggio nel più affascinante gioco criminale della storia. Trentasei è il numero civico, centoquarantotto sono i gradini che si salgono per varcarne la soglia, cento sono gli anni. Di che cosa?
Tre indizi fanno la prova regina che conduce al Quai des Orfèvres, cioè alla «Torre», alla «casa a punta»: la Notre Dame del noir, la Tour Eiffel del delitto. Lì, al civico 36, migliaia di poliziotti e di assassini hanno calcato, consumandoli con il peso delle indagini nelle scarpe e quello delle colpe sulle coscienze, i 148 gradini. Lo fanno esattamente da 100 anni. Giusto un secolo fa, l'1 agosto del 1913, la polizia giudiziaria della Ville Lumière s'accasava in quel severo palazzone. Dai pericoli pubblici della Belle Époque ai disperati delle banlieue, dalla banda Bonnot agli immigrati clandestini, molta acqua è passata sotto i ponti della Senna, ma la «Crim» non molla la presa, pare aver messo le manette alla propria leggenda. Ancora per poco, però. Nel 2016 ci sarà il trasferimento nel quartiere delle Batignolles, e forse la «Crim» diventerà un museo.
Il 1913 è anche l'anno in cui un promettentissimo investigatore viene promosso a commissario. Si chiama Marcel Guillaume, è nato a Épernay, nel dipartimento della Marna, e proprio le buone prove fornite sulle tracce della famigerata banda anarchica capeggiata da Jules Joseph Bonnot gli valgono il passaggio di grado. La sua sarà una carriera sfavillante: si occuperà di Henri Désiré Landru, il serial killer che seduceva e poi bruciava nel forno le belle signore; della parricida Violette Nozière; dell'affaire Mestorino; dell'immigrato russo Paul Gorgulov che assassinò il presidente Paul Doumer; del caso Stavisky. Diventerà insomma «l'as de la PJ», l'asso della Polizia Giudiziaria.
E soprattutto, per i posteri, diventerà... il Maigret in carne e ossa e baffi. Perché il commissario più famoso della storia della letteratura nacque proprio durante i lunghi “interrogatori” cui Guillaume venne sottoposto da Georges Simenon. Le memorie di Guillaume, Mes grandes enquêtes criminelles, dapprima apparse a puntate su Paris Soir, furono pubblicate dalle Éditions des Équateurs nell'ottobre 2006. E la loro prosecuzione ideale è in Histoire du 36 quai des Orfèvres (2010), scritto da Claude Cancès, ex direttore della PJ parigina. L'«asso» andò in congedo nel '37, e Simenon lo omaggiò con un lungo articolo. Morì nel '63, e il suo alter ego di carta, affidato ai ricordi e all'arte drammaturgica di un solo papà, gli sopravvisse per un decennio.
Ma il «36» è stato, e continua a essere, un'inesauribile fonte di ispirazione per tanti autori di polar, come dicono in Francia, di romanzi polizieschi. È come se nei suoi uffici si aggirasse un genius loci che contagia chi li frequenta, trasmettendo suggestioni, situazioni, idee, spunti. Un virus letale che corre per esempio nelle vene di Patricia Cornwell, la creatrice di Kay Scarpetta, abbeveratasi al verbo di Martine Monteil (la quale fra l'altro collaborò all'inchiesta sulla morte di Lady D.), e di Thomas Harris, autore di Il silenzio degli innocenti, che qui venne a documentarsi, e persino di Michel Houellebecq, che ha frequentato il sancta sanctorum parigino del crimine per scrivere La carta e il territorio.
Quanto al cinema, i riferimenti impliciti o espliciti al «36» non si contano. Con in primo piano Quai des Orfèvres, di Henri-Georges Clouzot (1947), adattamento di Legittima difesa, il romanzo di Stanislas-André Steeman del '42, e 36 Quai des Orfèvres di Olivier Marchal (2004). Marchal, ex poliziotto, ha dedicato il film alla memoria di un suo collega, Christian Caron, ucciso in servizio nell'89.
Il pensionamento del mitico «36» è all'ordine del giorno... da qualche anno. Se ne parlò nel 2007 e poi nel 2009. Ma questa volta pare proprio che sia la volta buona. Anzi cattiva, per i nostalgici che non si rassegnano alla modernizzazione e preferiscono il fumo pesante delle Gauloises all'asettica aria condizionata o i tramezzini e le birre fatti portar su dalla vicina brasserie a una lussuosa e insipida sala mensa. Dicono che l'edificio, ormai, non risponde più alle esigenze di una polizia moderna ed efficiente. Dicono che le stanze sono troppo anguste, che l'impianto elettrico non è a norma, che i parcheggi non bastano a ospitare i mezzi del personale, e che i sistemi di sorveglianza cominciano pericolosamente a fare acqua.
Quindi, gli eredi di Marcel Guillaume stanno già recuperando gli scatoloni dove infilare la foto della moglie e quella di Simenon, il posacenere bruciato da mille cicche, la moleskine con i numeri di telefono «giusti», la vecchia carta di Parigi piena di cerchiolini che indicano i luoghi del delitto, la stilografica usata per firmare i verbali. Del resto, obiettano i riformatori alle comprensibili rimostranze dei conservatori, i cugini inglesi di Scotland Yard non hanno forse lasciato White Hall oltre quarant'anni fa? È ora di cambiare.
E dunque, l'esodo di circa duemila persone appartenenti alle tre «brigate» (criminale, antigang, antidroga) è già stato pianificato. Addio al palazzo costruito a fine Ottocento sulle ceneri della sede del primo presidente di corte d'Appello. Si va tutti a Batignolles, lontano dalla Senna, lontano dal fantasma di Landru e dal nume tutelare di Maigret.

Lontano da quella che resterà sempre la Notre Dame del noir.

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